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archivio > Archivio sulla sinistra>La borghesia più vile del secolo stolto... (il programma comunista, n.16, 4-18 settembre 1963)

aggiornato al: 06/05/2008

il programma comunista n. 16, 4-18 settembre 1963

Questo articolo, che a quanto sappiamo non è mai stato riproposto,  partendo dal 1943 parla del ventennio fascista ad esso precedente e del secondo ventennio che gli successe con il secondo che «batte il primo in ipocrisia, in baciapilismo, in venalità dei pubblici amministratori, in dolce vita alle spalle dei poveri e dei fessi».

Oggi  a quel secondo ventennio è succeduto purtroppo quasi un altro cinquantennio. Che dire se non che  «lo schifo, il disprezzo e l'odio» che questo mondo suscita è solo aumentato.

 

 

La borghesia più vile del secolo stolto e i suoi due schifosi "ventennii"

 

Alla vigilia dell'agosto festarolo ventraiolo e sdraione, che la distingue perfino in questo pianeta volgente le orbite del suo secolo più dissennato, la mezza borghesia italiota si è concessa una sorsata dello spumante acido delle drogate e falsificate cantine, ove alimenta i resti in decomposizione della sua vanità retorica e della sua barattata poesia.

Ha commemorato il 25  luglio del 1943 che sta a cavallo tra due ventenni, quello fascista di Mussolini e quello seguente, della liberazione e del miracolo. L' Alma Mater di tutte le letterature avrebbe avuto secondo la coltura popolare oggi diffusa, due gestazioni: prima avrebbe partorito un demonio con la coda e le corna, poi un angelo con le alucce dorate.

Noi mettiamo i due ventenni a pari grado di merito, in quanto è loro dovuto nella luce di una critica storica non degenerata e rincretinita, di schifo di disprezzo e di odio.

Il fatto storico del 25 luglio fu una commedia ignobile non meno di quello del 28 ottobre, in cui non fu data una battaglia della guerra civile, che il proletariato italiano aveva perduta inesorabilmente nella «campagna» 1918-1922, non per potenza delle forze nemiche dello stato borghese ma per il nero tradimento opportunista. In ottobre non recitarono in prima parte le bande quadrumvirate all'addiaccio ma un degno italiota in abito a coda e cappello a cilindro cullato dal vagone letto. In luglio, dopo il ventennio, lo stesso personaggio fu liquidato in battute altrettanto comiche portato via dallo stesso salotto da un carabiniere, senza che una sola camicia nera  alzasse il moschetto. La brava padrona di casa, Elena, figlia del re pecoraro, dette una lezione alla quasi millenaria monarchia sabauda dicendo al marituccio: intrappolare l'ospite; che indecenza! Aveva finalmente imparato della nobile lingua italiana la frase indispensabile a tutti: che indecenza!

Non meno lurido il fatto storico della sera prima, il Gran Consiglio. Questo Stato maggiore del fascismo volle giocare alla democrazia e al voto, dinanzi allo smarrito Duce che balbettava sapere da Hitler che l'arma segreta avrebbe vinto la guerra. Era la verità; si trattava dei missili che se non erano ancora ad esplosivo atomico avevano già la propulsione a razzo e l'orbita semi-kepleriana, prima degli americani di Hiroshima e dei russi dello Sputnik (vero, von Braun?).

In effetti il problema storico era uno solo: oramai chi vince la guerra? La maggioranza dei membri del Gran Consiglio capivano che gli Alleati russo americani sarebbero venuti a farli fuori e tentavano di salvare la pelle «all'italiana», gettando loro nelle fauci il fino allora divinizzato Mussolini. Il furbo re colse la palla al balzo e fece lo stesso conto. Quello straccio di uomo lasciò votare e chiese: chi recherà al re l'ordine del giorno? Tu, disse Grandi tra il ghigno degli altri. Così finiva nella vergogna maramaldesca la stolta orgia del primo ventennio di gloria di questo paese infelice; ricordate il motto: bombe e manganello ai nemici, gloria e oro agli amici? Gli «amici» del gran consiglio miravano non solo a salvare la pelle nelle vicende che si annunziavano, ma a rioffrirsi ad una nuova Italia che regalasse gloria o almeno oro.

Qualcuno ce l'ha fatta; in ogni modo ne ha levati di mezzo più il Mussolini postumo del processo di Salò che l'antifascismo; il Mussolini che aveva col suo ultimo sprazzo di abilità invano tentato di persuadere Hitler alla pace separata con Stalin, e nella sua agonia tentava di ficcarsi sotto il gran mantello dell'opportunismo socialistoide, fratello gemello di quello che aveva rovinato la seconda Internazionale, e stava rovinando la terza.

 

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All'aprirsi del primo ventennio la sinistra rivoluzionaria italiana dopo avere invano tentato le sorti dello scontro diretto, che non era con le forze nere di Mussolini, ma con quelle dello stato costituzionale e parlamentare storicamente sempre pronte a scoprire bocche da fuoco, aveva posto nettamente il problema storico della «minaccia di un colpo di stato reazionario».

Lo poneva nello stesso modo di Marx e di Engels, della stessa prefazione del 1895 di questo, ormai vicino alla morte, che i revisionisti osarono sfruttare per decenni, simulando di non avere capito. Per somma sventura la Internazionale di Lenin, negli ultimi anni di vita di questo, distrutto dall'immane sforzo di pilotare il cammino della rivoluzione da nazionale a mondiale, nemmeno lo capì, e dinanzi alla offensiva fascista, di cui l'Italia sembrava il primo esempio, dette la parola mondiale falsa: cioè non la controffensiva per un tentativo anche estremo di prendere il potere (era il nemico di classe che rompeva gli indugi) ma il tentativo di ributtare il fascismo con una parola di conservazione e dunque di antirivoluzione: salvare la libertà e le «conquiste» proletarie. Tali conquiste fasulle si riducevano ovunque alla costituzione borghese. Era rotta la antitesi di Marx (Francia 1848): à bas la revolution / à bas la constitution! cioè offensiva borghese / controffensiva proletaria!

Era, fino da allora (o Gregorio Zinovieff, tardi lo capisti e pagasti con la testa) la parola del blocco con tutti gli antifascisti, con la merda della mezza classe, con quello stesso ignobile strato da cui erano usciti i centurioni delle camicie nere e i loschi figuri del Gran Consiglio!

Noi dicemmo chiaro fin da quel tempo: «Matteottizziamo» il fascismo. Non è la categoria Libertà che fa al caso storico: è la categoria Terrore.

Quando il fascismo venne lo odiammo a morte  non per la occasione lieta che ci aveva dato e non avevamo saputo cogliere: bensì per il postfascismo demoborghese bloccardo e controrivoluzionario che fatalmente preparava.

Le maree di sterco di questo secondo ventennio vanno messe sul conto della ignominia del primo. In esso è la conferma che, se ucciderlo era un merito, non è stato ucciso, e nemmeno appeso a piazzale Loreto: ha vinto ed è vivo, in Italia e nel mondo, quando la consegna generale dei devertiti della mezza classe seguita ad essere: Gloria, in finzione retorica; Oro, in contanti!

 

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Più di tutti gli altri modi storici di produzione, il capitalismo borghese ha un segnato punto di arrivo universale. Ma la sua genesi ha stimmate nazionali e il marxismo ne ha sempre data la dottrina, a partire dalla classica partizione: Inghilterra - Economia; Francia - Politica; Germania - Filosofia, che definiva l' Epos borghese al grande 1848, i cui uomini «sapevano tutto», mentre i posteri hanno tutto dimenticato, salvo il culto dell'oro (America e Russia odierne).

Ogni forma borghese nazionale, se ci si permette l'immagine colorita, ha un suo retaggio, una sua reazione di nobiltà e di gloria. Quando l'avrà vissuta e consumata non le resta che il ramo discendente della parabola; epoca che rivive quella dei farisei, dei liberti, dei pretoriani e dei cortigiani immediatamente preborghesi.

Questa penisola aveva tracannato da tempo il suo nappo di gloria eroica decorato dai nastri rutilanti della poesia e dell'arte. Tutto, fino alla feccia; questi due ventenni, su cui oggi dobbiamo vomire, sono stratificazioni quaternarie del fondaccio feccioso.

La prima democrazia moderna? I Comuni. Il primo stato unitario moderno? Quello di Federico II re scienziato poeta filosofo ed ateo. Il primo capitalismo europeo? Quello di Firenze e altre repubbliche, che finanziano i re guerrieri e ne sono truffate nel loro rigore di amministrazione.

Le sovrastrutture ideali sono consumate con lo stesso anticipo di secoli. Dante su tutti non solo anticipa di cinque secoli l'idea ghibellina, ma vede, sia pure monarchico, lo stato universale che ha superato le patrie, e lo oppone alla Chiesa Romana. Poi viene un altro secolo di ebbrezza: il Rinascimento che per brevità si ricorda in nomi giganteschi. Per la scienza basti Galileo, per l'ingegneria Leonardo, i poeti veri e i pittori scultori architetti sono più delle stelle del cielo; i filosofi - i Bruno i Telesio i Campanella i Vico - non hanno bisogno di attendere Kant.

Una nuova ripresa fa eco alla rivoluzione francese. I poeti inveiranno: il Papa è Papa e Re; dessi aborrir per tre! I moti popolari saranno al massimo livello: Napoli 1797 basti per citazione. I regni napoleonici saranno di ciclo breve, ma basti per tutti quello di Murat eversore del feudalismo nel sud, che per i cretini è vivo ancora.

Basta davvero. Non solo squalifichiamo il secondo Risorgimento del 1945 ma anche il primo. Se ne salvano  pochi esempi di moti grandiosi di popolo: Milano e le altre città del Nord, Pisacane e Sapri, la grandissima repubblica romana che aveva fugato il Papa. La storia delle guerre della Monarchia è fertile per ruffianeria politica quanto squallida di gloria. Memorabili le disfatte: Novara, Custoza, Lissa, solo fortunate le alleanze coi vincitori dell'Austria, da Napoleone III a Bismarck... Glorie da rinverdire non ce n'erano più. Non restava che la degenerazione e la decadenza. Nel 1911 il partito socialista già rifiutava il cinquantenario dell'Unità: nel 1961 i partiti socialisti e comunisti (!!!) vi si sono crassamente piegati!

Dopo l'unità, le glorie furono dello stesso stile: Abba Carima, e il vergognoso episodio imperialista di Libia.

I poeti non avevano più che cosa cantare; nacque il futurismo e da allora cantano per la controrivoluzione. Drogati.

La grande guerra vittoriosa lo fu anche a sbafo, dopo che le armate alleate accorsero ad arginare la frana di Caporetto, gemma della collana...

Alla grande guerra dilatatrice di confini più nel secondo che nel primo ventennio (ne erano due figli ambo bastardi) si sono levati gli inni delle tube scordate.

 

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Il primo ventennio degenerato sentiva che un movimento nuovo e che osa pretendersi rivoluzionario deve avere una dottrina. Non la volle attingere dalle tradizioni liberali e democratiche indigene e propinò una indigestione sconcia di aquile romane.  Tentò poi una mistica e gli aborti di questa sono noti; li trovate nei fondachi più olenti  del partito stalin-kruscioviano, ancora oggi.

Non è un caso: era la mistica della mezza classe, la stessa che ha corrotto Mosca.  Ma la mezza classe è solo venale e prezzolabile; non esiste una mistica né una poesia della mezza classe, come non può esistere una sua dottrina. Nelle scuole di mistica fascista facevano quello che si faceva nelle scuole staliniane di «marxismo». Di nascosto leggevano il Capitale e Stato e  Rivoluzione. Sono state due vie convergenti allo stesso risultato: la falsificazione e il tradimento dei testi.

La mistica del primo ventennio partiva da attitudini antipretesche sul ricordo di antiche manganellate a sottane nere di camicie nere. Ma che mistica! Finirono nel patto lateranense e nella cessione di mezza Roma al Vaticano.

E' qui un indizio chiaro delle convergenze dei due ventenni nella vergogna. Il secondo commemora oggi il blocco socialcomunista-democristiano posato sul riconoscimento - oggi in regola con la democrazia pura - del concordato Ratti-Mussolini.

Oggi il blocco non c'è ma risorgerà in autunno. E la base di simpatia al Vaticano è soprattutto solida nei comunisti ex Kremlino che sono in tutta linea col loro stato guida quando permettono la religione nel partito, e le si genuflettono nello stato, anzi in tutti i loro stati.

La nostra è certo stata una borghesia precoce. Questo spiega i suoi due ventenni di decrepitezza sordida e sinistra.

Al tempo del risorgimento si chiamava ancora Roma: la sacra bottega. Oggi quale intellettuale farebbe una allusione alla lupa dantesca? Tutto oggi è bottega, la corte mezzo-classista delle grandi aziende del capitale e quella intrallazzatrice dei partiti elettorali. L'Italia non è una sacra bottega né una laica bottega, perchè di dirsi laica arrossirebbe.

L'Italia dei due ventennii è tutta una simonia progressiva non tanto di indulgenze per l'altra vita (sebbene tutti giurino di crederci) quanto di gavazzati soldi di Pantalone in questa. Ma siccome si è nella curva della degenerazione, il secondo ventennio batte il primo in ipocrisia, in baciapilismo, in venalità dei pubblici amministratori, in dolce vita alle spalle dei poveri e dei fessi (ora siamo allo «scandalo» del Cnen. Domani?).

Non vi sono più date da commemorare né corde per cantarle. Se il ventennio di sinistra tripudia nel celebrare quella del 25 luglio, come domani quella dell'8 settembre, è perchè, rinculatore sempiterno, si sente più spregevole perfino della monarchia bifronte e truffatrice storica di alleati, del suo Badoglio l'Africano, e della congiura e fuga di quattro staffieri di palazzo.

Il 25 luglio sta bene a cavallo tra il ventennio del becerismo truculento e delle grinte fasulle, e quello successivo, della indecenza integrale.

 

il programma comunista, n. 16, 4-18 settembre 1963