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archivio > Archivio sulla sinistra>L' astensionismo (battaglia comunista, n. 17 e 18, agosto e settembre 1951)

aggiornato al: 22/10/2008

battaglia comunista, n. 17 e 18, agosto e settembre 1951

Normalmente anche gli articoli che apparivano su battaglia comunista, cosa che poi divenne la regola con  Il Programma comunista, non erano firmati ed erano quindi anonimi; questo invece che uscì in due numeri del giornale nel 1951 porta, come firma, il nome Vico. Non ne siamo sicurissimi ma dovrebbe trattarsi di Ludovico Tarsia comunemente chiamato con il diminutivo dai compagni che gli erano più vicini.

 

 

 

L'astensionismo

 

La parola «astensionismo» è stata una di quelle a cui, artatamente, si è cercato da parte di alcuni avversari, di dare un significato profondamente diverso da quello suo originario. Si è cercato di farla divenire sinonimo di neghittosità o di generico incitamento a non fare. Ora, in un partito politico non esiste il problema di fare o non fare, compiere cioè una qualsiasi azione o non; esiste piuttosto il problema di fare bene e di non fare male  ossia compiere azioni che siano proficue a raggiungere i fini che esso si propone e evitare quelle che possano produrre effetti contrari.

E' evidente che sarebbe colpa astenersi dal compiere azioni proficue e altrettanto, se non perfino maggiore colpa non astenersi dal compiere azioni inutile o dannose.

Ma lasciamo queste considerazioni generali e limitiamoci a dire ciò che l'astensionismo volle significare per coloro che lo proposero e lo sostennero. Essi intesero solo propugnare che si dovesse incitare il proletariato a non partecipare alle  competizioni elettorali. I sostenitori di questo principio di carattere strettamente tattico costituivano l'estrema sinistra del partito socialista italiano e furono il vero nucleo costitutore fondamentale del partito comunista al quale fornirono la grandissima maggioranza degli iscritti. Propugnatori dell'astensionismo e chiamati per questo astensionisti, essi spiegarono il perché della loro proposta, fondata sulla valutazione delle azioni rivoluzionarie svolte dal proletariato nell'ultimo periodo. Se nella fase durata dalla fine del settecento alla prima metà dell'ottocento, il proletariato aveva agito insieme alla borghesia (in quel periodo, non solo classe rivoluzionaria, ma vera protagonista delle rivoluzioni in esso avvenute), nelle successive azioni rivoluzionarie non solo si era distaccato da questa ma aveva agito contro di essa. Nella rivoluzione russa del 1917 non solo il proletariato aveva distrutto un regime ancora in parte preborghese, ma aveva fatto ciò scavalcando la borghesia e travolgendola insieme con quello, eliminando e annullando i tentativi di quanti pretendevano di arrestare lo sviluppo della rivoluzione russa per ridurla a una nuova edizione della rivoluzione francese. Gli astensionisti ragionavano così: il proletariato ha oggi la sua dottrina, la sua teoria rivoluzionaria – il marxismo – e ha già preso l'iniziativa della sua guerra, la lunga guerra che dovrà continuare a combattere con tutte le fasi che essa comporta, e che dovrà condurlo alla vittoria finale.

Il successo russo è indubbiamente di importanza e di valore definitivo non tanto per i risultati immediati e, per così dire, locali conseguiti quanto in rispetto allo sviluppo della rivoluzione mondiale.

In tale fase è assolutamente superato il tenere conto del vantaggio che può ricavare il proletariato sfruttando la possibilità che lo stato borghese gli consentiva di utilizzare come mezzo di propaganda le elezioni e gli eventuali posti conquistati. La partecipazione alle lotte elettorali costituisce un inutile logorio di forze che debbono essere polarizzate verso azioni di più reale efficacia, e ciò soprattutto nei paesi cosiddetti democratici, in cui il sistema parlamentare è in pieno funzionamento ed è radicata nelle menti la concezione liberale che il cittadino, godendo della piena libertà individuale, contribuisce col suo libero voto alla scelta del governo, che pertanto è la espressione del volere della maggioranza dei cittadini. Tale concezione liberale è avvalorata nelle file del proletariato dai partiti socialisti che si proclamano seguaci di Marx, dimenticando che di simili fandonie e menzogne proprio la critica di lui aveva fatto giustizia sommaria. In questi paesi è dunque necessario stornare dalle menti dei proletari la fallace idea che attraverso le vicende elettorali si possa conquistare il potere, e non invece solo, a mezzo della violenza rivoluzionaria come il marxismo insegna.

Gli astensionisti sostenevano che il mezzo decisivo per inoculare nelle masse la convinzione che le manovre elettorali sono un affare interno della borghesia, che a mezzo di esse sceglie le persone che ritiene più adatte in quel momento a dirigere il suo Stato, è quello di non prendervi alcuna parte. Solo così esse si renderanno conto che, comunque si denominino, gli eletti sono sempre servi della borghesia e non si lasceranno illudere di potere, agevolando questo o quel gruppo della classe dominante, difendere il proprio interesse. Il piccolo vantaggio, che qualche volta si potesse ottenere, sarà pagato al caro prezzo dell'abbandono dei propri scopi per perseguire miraggi ed illusioni, presentati proprio nell'intento di deviarle dagli scopi effettivi.

Sostenevano ancora gli astensionisti che ritenevano inefficace la propaganda antielezionista fatta in periodo elettorale, perché chi ha fiducia in questo mezzo non si lascia convincere ad abbandonarlo e anche i non molto fiduciosi finiscono per votare sia per qualche speranza residua sia attratti dall'illusorio guadagno di non favorire gruppi che ritengono meno vicini. Assolutamente controproducente ritenevano poi ogni propaganda astensionistica se associata all'atto positivo della presentazione di candidati. Escludevano inoltre che si potesse sostenere di rinunciare ai posti conseguiti perché la massa elettorale non avrebbe assolutamente compreso ed accettato questa tattica inconcludente, e si sarebbe rifiutata di seguire oltre il partito.

A Lenin, che fi il più accanito sostenitore della partecipazione alle elezioni da parte dei partiti comunisti e che considerava gli astensionisti infetti da anarchismo, si faceva da questi notare che, nei paesi democratici, la partecipazione alla lotta elettorali, sia politiche che amministrative, diviene fatalmente l'azione di primo piano, e finisce per assorbire i migliori uomini e la quasi totale attività dei partiti stessi. Inoltre si aggiungeva (allora non erano ancora nati i regimi così detti totalitari): rispetterà sempre la borghesia, ovunque e comunque, l'attuale stato di cose con la libera formazione dei partiti e la possibilità ai membri si essi di conseguire posti? Non potrà trovare un modo di annullare tutto ciò? Che cosa avverrà in tal caso, della vita e dell'azione di partiti completamente orientati verso la tattica elettorale?

I fatti susseguenti hanno provato che questi interrogativi, a cui non fu mai sufficientemente risposto, erano tutt'altro che infondati. Lenin sosteneva inoltre che fosse possibile nei parlamenti borghesi svolgere una azione rivoluzionaria, per quanto la ritenesse difficile e, proprio per confondere gli astensionisti, soggiungeva: «che la loro proposta partiva dalla coscienza di queste difficoltà da affrontare e che non era buona tattica rinunziare al tentativo di compiere un'azione difficile col pretesto di dichiararla anticipatamente inutile e dannosa».

A lui si rispondeva che non erano le difficoltà che potevano preoccupare, in quanto nei regimi democratici sarebbe stato agevole compiere ogni specie di tentativo senza incontrare seri ostacoli e, a furia di prove, qualche cosa sarebbe pur venuta fuori. Si intende che per Lenin la azione rivoluzionaria nei parlamenti non consisteva nelle discese negli emicicli per affrontare non diciamo le pistole ma neppure i cazzotti avversari, come avviene oggi in quello italiano, ove il parlamentare che lascia il banco animati dai più fieri propositi incontro subito le braccia amorevoli quanto suadenti di ben robusti uscieri.

Gli astensionisti dicevano: se si tratta di un piccolo gruppo che svolge quasi solo nell'assemblea legislativa l'opera di protesta e propaganda la cosa è semplice ed è anche utile. Per questo noi insistiamo che è nei paesi democratici che bisogna praticare l'astensionismo, non in quelli in cui il regime parlamentare è solo una lustra e in cui solo la tribuna parlamentare può essere sfruttata come mezzo per propagandare le proprie idee.

Ma ove il gruppo parlamentare proletario è numeroso, esso, già solo per questo, ha il suo peso nelle decisioni politiche, perché esercita la sua influenza nel meccanismo numerico della maggioranza e minoranza, ed è costretto per forza di cose ad entrare nel gioco e quindi nei compromessi. I gruppi parlamentari socialisti sono stati sempre più a destra nei partiti e il modo loro di funzionare costrinse perfino Liebknecht a votare più di una volta i crediti di guerra prima che, rompendone la disciplina, negasse loro il proprio voto.

 

Vico (continua)

 

Nella prima parte di questo articolo sono riassunti gli argomenti fatti valere dagli astensionisti nell'altro dopoguerra contro la partecipazione alle campagne elettorali in genere.

 

Per quanto riguarda più specificamente la situazione italiana  – altro elemento che determinava la necessità di contrapporre l'astensionismo alla malattia elettorale – si aveva al tempo di queste discussioni nel partito socialista un gruppo di vecchi elementi stimabilissimi sotto ogni punto di vista sia come preparazione intellettuale sia come dignità di contegno politico. Ebbero solo nel periodo che precedette immediatamente la scissione una fase di incertezza che li trascinò in atteggiamenti opportunistici, purtroppo deplorevoli. Costoro, per quanto si dichiarassero seguaci di Marx, erano fermamente convinti della graduale ascesa del proletariato che sarebbe culminata nella conquista del potere. Per essi il proletariato marciava su due vie parallele: da una parte,  estendeva e consolidava progressivamente i suoi sindacati di classe, a mezzo dell'azione dei quali aveva ottenuto successi consecutivi e sempre maggiori, successi che essi glorificavano designandoli «le conquiste intangibili del proletariato». Dall'altra parte vi era il progressivo aumento numerico dei socialisti nei parlamenti che per essi era l'indizio sicuro che, appena questi avessero raggiunto la maggioranza (sarebbe bastata la metà più uno e si era già prossimi a ciò) sarebbe stata proclamata la repubblica sociale: era la parola magica di quel tempo. Lo Stato per questi pretesi marxisti era un ente a sé, una specie di macchina al di fuori delle classi, una specie di automobile di cui bastava impadronirsi del volante per condurla ove si volesse. Misconoscevano insomma  tutto il pensiero marxista sulla origine e sulla funzione dello Stato come organo di classe.

Accanto ai cosiddetti riformisti il partito socialista aveva accolto un gran numero di persone, la maggior parte delle quali, assieme a pochi anziani, ne costituivano l'ala massimalista. Fu la più vuota, la più parolaia, la più inconcludente massa, gente assolutamente impreparata, e più affetta dell'altra dalla lue elettoralistica, mentre si affannava a strombazzare che ripudiava in blocco metodi e concezioni dei riformisti per seguire solo la via rivoluzionaria. I riformisti partecipavano alle elezioni sinceramente convinti di battere la via per la conquista del potere, ma i massimalisti, che a parole negavano ciò, si ingaggiavano nelle elezioni in linea di massimo solo per soddisfare ambizioni e vanità. Illudendosi di tenere a bada gli estremisti, specie gli astensionisti, che combattevano il loro equivoco atteggiamento, essi giunsero a formulare e discuterla, fingendo di prenderla sul serio, la proposta che, a elezioni ultimate, si sarebbero costituiti «i soviet» col proposito di conferire loro l'effettivo potere nel senso che in essi si sarebbero prese le deliberazioni ultime. Queste poi sarebbero state trasmesse ai vari consigli comunali e provinciali, quelli si intende conquistati dai socialisti, per dare alle decisioni veste legale essendo questi gli organi riconosciuti dallo Stato borghese, e per curarne l'esecuzione. Che i «soviet», i «consigli», fossero la forma in cui finora si è concretata la formula astratta espressa dalle parole «dittatura del proletariato», quelli ignoravano o non comprendevano. Che lo stato dei soviet fosse l'organismo con cui il proletariato esercita il potere da solo, perché dei soviet possono far parte solo i proletari, e lo esercita perché a mezzo di essi svolge la sua funzione di classe dominante con finalità e quindi mezzi assolutamente diversi da quelli dello stato borghese, per essi era linguaggio sconosciuto. Se nello stato borghese la classe dominante assicura a mezzo dello stato il suo privilegio e il suo sfruttamento, essa non può e non deve eliminare la classe proletaria senza la quale non può vivere e quindi deve fino a un certo punto assicurarne l'esistenza e la possibilità di continuazione; al contrario il proletariato tende a distruggere la borghesia fino a farla sparire. I «soviet» ossia lo stato proletario e lo stato borghese sono insomma due poteri che non possono esistere e funzionare nella stessa zona senza combattersi fino a che uno dei due scompaia.

Quindi furono perfettamente conseguenti i bolscevichi russi quando, fondato il potere dei soviet nel 1917,  spazzarono via manu militari, l'assemblea costituente, giacché, mantenendo in vita questa, avrebbero annullato i risultati ottenuti nella rivoluzione.

Abbiamo ricordato queste vecchie discussioni non per amore di sentirci ancora una volta dire che noi ci compiacciamo di ripetere sempre le stesse cose ma perché la questione dello astensionismo, nei paesi cosi detti democratici, è rimasta in piedi tal quale era ai tempi, non proprio lontanissimi, in cui nacque.

Vi è la sola differenza che la conquista del potere col metodo del graduale aumento numerico dei rappresentanti del proletariato, cara ai vecchi riformisti, oggi è la dottrina dei partiti comunisti che riconoscono come capo supremo Stalin.

Questi non ha esitato ad affermare che vi sono due vie per il proletariato di conquistare il potere: quella seguita dagli inglesi mediante le vittorie elettorali, più lenta ma con minori scosse, e quella tumultuosa con più pericoli e più rapida seguita dai russi sotto la guida di Lenin. Il quale Lenin, però, diciamo noi, è vero che sosteneva che i partiti comunisti partecipassero alle elezioni, ma non ha mai pensato che per loro mezzo il proletariato avrebbe conseguito il potere.

Se nei paesi così detti democratici, il cittadino ha ancora la illusione della libertà del voto donde la necessità della propaganda astensionistica, nei paesi così detti totalitari il fatto che questa libertà sia una pura beffa è di una tale palmare evidenza che il buon cittadino per essere condotto a votare, vi è forzato in tutti i modi; vi è obbligato perfino per legge, considerandosi colpa l'astensione dal voto.

Egli sa pure che, anche se non andasse di persona, il suo voto figurerebbe sempre perché si deve raggiungere la cifra del 99 e frazione per cento di voti all'unica lista presentata, e si trova perciò, ossia per quieto vivere, più conveniente presentarsi e non fare notare la sua assenza. E così in questo paesi con un unico partito, parola che dovrebbe essere espressione di una parte e figura come espressione del tutto, con elezioni plebiscitarie di tutti i cittadini divenuti ormai elettori perché, come ufficialmente dichiarato, non esistono più classi, si è sentita la necessità di creare un immenso apparato poliziesco di costrizione. I tutti costringono i tutti?! Mistero che il solito capo dottrinario spiega affermando che la pratica dello stato socialista ha dimostrato errata la conclusione marxista dello stato che muore.

Povero marxismo, a che ti hanno ridotto i «marxisti» staliniani.

 

Vico

 

battaglia comunista, n. 17 e n. 18, 29 agosto - 12 settembre 1951