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archivio > Archivio sulla sinistra>Ci risiamo con l'economia della sciagura, (ottobre 2009), ("Sul filo rosso del tempo")

aggiornato al: 20/10/2009

Ottobre 2009, "Sul filo rosso del tempo"

Riceviamo e con piacere pubblichiamo questo articolo scritto da compagni siciliani che ci è stato inviato dai compagni di Schio che pubblicano «Sul filo rosso del tempo»; l'articolo si riferisce all'ennesimo cataclisma ambientale, all'ennesima alluvione che  questa volta ha toccato le terre della provincia di Messina.

 

 

CI RISIAMO CON L’ECONOMIA DELLA SCIAGURA

 

L’ennesima catastrofe, con morti e distruzioni, che si è consumata nei comuni siciliani di Giampilieri e Scaletta Zanclea, situati nella fascia Ionica della provincia di Messina è stata causata dall’arrivo delle prime piogge autunnali che generalmente in questa zona sono a carattere alluvionale.

Questo disastro ripropone, come da copione, il piangere lacrime di coccodrillo di una classe dominante che sa poi come utilizzarlo per  il business dell’emergenza e della ricostruzione, i soliti rimpalli di responsabilità tra politici e istituzioni, fatti di colpi bassi, in una realtà economica che vive principalmente sulle attività speculative del settore delle costruzioni e delle opere pubbliche in accordo con un’amministrazione pubblica che  privilegia la distruzione del territorio.

E’ risaputo, specie nell’ambiente tecnico-professionale e nelle così chiamate ”istituzioni preposte alla gestione e salvaguardia del territorio”, che i monti e le colline (Peloritani) che stanno sopra i centri abitati marini e collinari, sono geologicamente di recente formazione e per questo particolarmente instabili e soggetti a forti fenomeni franosi e di erosione. Il territorio per effetto dei  descritti fenomeni, è percorso in ogni  vallata  da fiumare e torrenti che  in caso di eventi meteorologici diventano inaspettatamente impetuosi.

Se alla particolare natura e conformazione della zona, peraltro indagata da probabili ben remunerati studi, mappature e fotogrammetrie, si aggiunge l’abbandono delle popolazioni rurali, che hanno un compito sociale di sistemazione e manutenzione dei terrazzamenti e delle strutture per far defluire l’acqua verso i bacini fluviali,  il risultato non può che essere precisamente quanto è accaduto.

L’abbandono sistematico delle campagne fa parte dei processi economici della società capitalistica che porta all’inurbamento selvaggio, che concentra sempre più uomini in aree ristrette  in nome delle rendite e del maggior profitto, con  conseguenti  giganteschi disastri in intere regioni, come avviene oramai sistematicamente in tutte le aree del globo ( vedi area asiatica, Cina, centro e sud America e nord Africa), ammassando in megalopoli intere  popolazioni di cui non si contano più le decine di milioni, con le note conseguenze: degradazione  delle condizioni di vita sociale a  livelli mai raggiunti nelle epoche precedenti.

La popolazione rurale espulsa dalla meccanizzazione della tecnica agricola  diventa proletariato, con salari da fame, nell’industria impiantate in loco dalle  multinazionali, o  emigra in cerca di lavoro verso le zone più ricche.

Questo contesto viene inasprito dalla propensione generale del modo di operare della società borghese che rifugge, in nome del costruire e ricostruire per massimizzare il profitto, gli interventi di sistemazione e consolidamento del territorio attraverso il  ripopolamento, con alberi e sottostante macchia, dei rilievi e delle sponde fluviali privilegiando invece il redditizio imbrigliamento cementificato dei corsi d’acqua.

Con l’arrivo dell’acqua piovana di forte intensità, la vegetazione  svolge un insostituibile ruolo di rottura e nebulizzazione delle gocce d’acqua  evitando l’impatto diretto al suolo, mantiene  fresco e umido il terreno trattenuto dalle radici favorendo l’assorbimento dell’acqua e al contempo rompe  l’accelerazione della velocità dell’acqua, che è  causa di corrosione, smottamenti e devastanti frane come è successo nei centri abitati interessati.

Già nel 2007,  nella stessa area e nei Comuni di Alì Terme, Nizza di Sicilia e Roccalumera si era verificato un evento alluvionale con smottamenti franosi, fiumare e torrenti rigonfi di acque e detriti  che avevano allagato ampie zone  a ridosso delle colline e nei centri abitati  in prossimità di greti e foci.

Le promesse fatte dai politici e dagli enti preposti di intervenire e attivarsi per la salvaguardia del territorio, sono rimasti puntualmente disattesi,  infischiandosene delle conseguenze per il futuro.

Foci e greti  invece di essere liberati e alleggeriti con divieti di costruzione  e ristrutturazioni che  sottraggono spazio utile per il regolare deflusso delle acque anche in casi eccezionali, vengono ostruiti e imbrigliati con inconcepibili canali di pochi metri quadrati di portata, con l’indubbio risultato di violenti e distruttivi straripamenti.

 

Ogni qual volta arrivano le prime piogge autunnali, assistiamo ad alluvioni con relative distruzioni di mezzi e persone: alla base di tutto questo non possiamo fare a meno di individuare delle cause oggettive, costituite da un depauperamento delle strutture che dovrebbero far defluire l’acqua verso i bacini fluviali che è la conseguenza a sua volta di cause sociali, da individuarsi nella antieconomicità per il capitalismo delle manutenzioni degli impianti deputati alla salvaguardia del territorio, un depauperamento cui poi si aggiunge  come causa scatenante dei periodici disastri la ridefinizione di nuovi assetti territoriali attinenti alla distribuzione della popolazione nel territorio. E’ questa la catena di eventi che ha portato a tutte le alluvioni e smottamenti in Italia così come nel resto del mondo.

 La meccanizzazione della tecnica agricola  ha  costretto la popolazione rurale in esubero ad abbandonare le campagne e ad alimentare il processo di inurbamento selvaggio e coattivo conseguente al concentrarsi dell’industrializzazione  nelle grandi città. 

La collina e la montagna viene così abbandonata in massa, ponendo fine alla manutenzione dei terrazzamenti ed a quelli dei canali di scolo delle acque piovane che venivano svolte con il lavoro associato dei contadini,  se si aggiunge a questo il taglio indiscriminato dei boschi provocato dalla fame di legname a seguito dell’ampliamento degli abitati urbani e della sua trasformazione in carbone per alimentare le centrali elettriche per il funzionamento industriale che vomita acciaio, cemento e mattoni in continuazione, e se a questo scempio aggiungiamo il danno provocato dagli incendi dolosi; la conseguenza è che le acque piovane non vengono più trattenute dagli alberi ormai spariti, l’arrivo al suolo dell’acqua ed il suo deflusso sono quindi immediati, il terreno non essendo più umizzato e mantenuto fresco dalle radici e dalle fronde si secca e si compatta diventando acceleratore della velocità dell’acqua, l’aumento della velocità accelera la corrosione, che portando allo scoperto gli strati rocciosi crea un effetto autoalimentatesi. Gli smottamenti e le frane che ogni anno interessano  colline e montagne sono a questo punto d’obbligo.

Insomma tutto quello che sa fare il capitale nei confronti del territorio in Italia come nel resto del mondo non è di conservare,  migliorare ed eventualmente come ultima ratio ampliare le opere idrauliche ed gli assetti  territoriali che hanno funzionato per secoli per adeguarli alla bisogna, ma  di tracciare i piani di  nuove grandi e più “moderne” opere  (Ponte sullo Stretto), che fagocitano miliardi su miliardi, lesinando poi -ad opera megagalattica terminata alla meno peggio per la peste del risparmio sui materiali- le quattro lire della manutenzione ordinaria.  Quindi dopo aver costruito la mega opera, accorgendosi dopo qualche anno che fa acqua da tutte le parti, non la  si aggiusta, ma nella migliore delle ipotesi la  si ingloba in un’altra mega opera che soppianta la prima, continuando senza fine questo gioco di scatole cinesi che oltre allo spreco di risorse, chiede un pedaggio continuo di vite. 

In un  testo della Sinistra comunista, il Filo del Tempo “Politica e costruzione”,  che riproduciamo per intero di seguito,  é descritto il processo attraverso  cui il generale interesse si rivela per quello che è: la patina ideologica dell’interesse della classe dominante. Non c'è interesse comune nella società di classe, non c'è quindi nessun "piano di costruzione" capitalistico, né può esservi, nonostante le elucubrazioni dell'urbanista moderno che, con la maschera dell'assessore, dell'architetto e dell'ingegnere, rappresenta il prodotto più specifico della putrefazione ideologica, del distruttore del territorio a vantaggio dell'alta e bassa speculazione, dell'affarismo sfrenato in un campo, quello della rendita, che per lo stesso capitalista sarebbe vantaggioso combattere. La rendita è plusvalore che, invece di diventare sovrapprofitto, finisce nelle tasche del proprietario immobiliare, il quale, parassita supremo, riesce, per la semplice esistenza della proprietà, a succhiare valore dalla società intera. In un territorio come quello della fascia ionica della provincia di Messina, endemicamente povero di risorse industriali ed economiche, la speculazione edilizia è stata l’unica attività che ha convogliato denaro nelle tasche dei proprietari del suolo e di tutti gli affaristi della politica e delle costruzioni.

 Del fatto che la “catastrofe annunciata” di cui tutti ora parlano, sia il prodotto di una relazione in forte cambiamento tra gli eventi naturali, le condizioni sociali e fisiche e i sistemi di prevenzione del rischio organizzati, o più spesso non organizzati; ovverosia l’assetto del sistema produttivo, abitativo, ambientale, ecc., non se ne  fa  ovviamente parola. Non si può ammettere che questi processi hanno comportato anche un pesante prezzo per la sicurezza del territorio, ma  i chiacchieroni attuali  non hanno certo  impedito o diminuito che si continuasse il depaupera­mento che lo sviluppo capitalistico impone a livello generale, alla na­tura. Storicamente questo processo è stato, ed è tuttora, quan­to mai devastante. La molla del massimo utile privato nel più breve tempo pos­sibile, in assenza di vincoli sociali allo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, ha conferito alle modalità capitalistiche di appropriazione e di utilizzazione della natura la forma di una spirale inarrestabile di trasformazione -distruzione di cui ancora - a dispetto di tutte le disquisizioni circa la necessità di uno “sviluppo sostenibile” - non si intravede il superamento. In termini termodinamici, questo processo di trasformazione-distruzione della natura presa nel vortice irrefrenabile della valorizzazione del capitale, può essere descritto come un processo di degradazione senza ritorno di grandi quan­tità di elementi caratterizzati da bassa entropia (ovvero sistemi altamente ordi­nati: risorse minerarie, combustibili fossili, specie animali e vegetali, foreste, acque, suolo, ecosistemi, ecc. frutto di milioni di anni di evoluzione geologica e biologica) per un risultato del tutto effimero come il miglioramento dei bilanci finanziari  e di alcuni indici economici.

[…] Il responsabile dell’inquinamento della natura e della vita umana, delle distruzioni  e delle catastrofi, non è né “l’uomo comune” in generale, né “la società” in generale e ancor meno la famosa “civiltà industriale”, comodo luogo comune per mascherare i problemi reali; è un modo di produzione ben preciso, retto da leggi ben precise: il modo di produzione capitalistico, caratterizzato dalla produzione di merci mediante lavoro salariato. Lo sviluppo della produzione mercantile sulla base del lavoro salariato porta ineluttabilmente alla corsa al profitto e all’accumulazione, alla concentrazione del capitale ed all’imperialismo: nocività, inquinamento, distruzioni e disastri non sono che aspetti delle conseguenze di questo sviluppo.  (Politica e costruzione, 1952).

La caratteristica dell’epoca attuale consiste nel fatto che le tendenze distruttive del capitalismo, come già sottolineato da Marx, operano naturalmente su scala mondiale mettendo a nudo l’anacronismo storico della sopravvivenza del­l’attuale modo di produzione della vita sociale, e la necessità di un nuovo “regime” sociale, basato sulla proprietà socializzata dei mezzi di produzione.

 

Partito Comunista Internazionale

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