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aggiornato al: 28/12/2009

il programma comunista, n. 22, 4-18 dicembre 1958

Queste potenti pagine, tratte da parte del resoconto della terza seduta della riunione Interfederale di Parma del 20 e 21 settembre 1958, sono già presenti in internet e quindi questa volta deroghiamo da quanto ci eravamo prefissi e cioè di inserire materiale della sinistra non ancora presente in rete, ma queste pagine sono troppo belle per non riproporle ancora.

L'intero testo della terza seduta di Parma 1958 è apparso anche in un libro pubblicato nel 1972: «A. Bordiga, Testi sul comunismo, La Vecchia Talpa, Napoli» con una interessante introduzione di Jacques Camatte: Bordiga e la passione del comunismo.

 

 

Contenuto originale del programma comunista è l'annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti ed attore della storia umana.

 

(...)

Persona e Partito

Il volgare tranello che i nostri avversari tendono alla formidabile costruzione marxista della teoria del partito rivoluzionario consiste nel riproporre tendenziosamente, dopo che la nostra critica ha superato il problema della relazione tra individuo e società, quello tra persona e partito, ed in altri termini il vecchio argomento del capo e delle gerarchie. Tale argomento concerne ogni forma di organizzazione e non il solo partito politico, in quanto ogni tipo di organizzazione ha il suo famigerato "apparato". Quindi in molteplici circostanze (tra le altre, Riunione di Pentecoste) abbiamo mostrato che se pericoli vi sono essi possono essere domati e superati solo nella forma partito a preferenza di tutte le altre, la cui storia è piena dei fenomeni degenerativi che hanno accompagnato le ondate di opportunismo. Il classico "bonzismo" dei dirigenti, trattati con lauti stipendi e resi inviolabili da uno stupido timore reverenziale contro il quale abbiamo lottato all'arma bianca al tempo di Lenin, era il tessuto connettivo della Seconda Internazionale, e aveva dilagato nelle forme sindacali ed elettorali, le quali soffocavano la vitalità dei centri organici del movimento politico e se li erano sottomessi. In ciò il nocciolo della critica leniniana distruttiva dello opportunismo, in tutti i paesi.

Nel rispondere a questa insinuazione dei detrattori del marxismo non va dimenticato che noi non difendiamo il "partito" in generale, un qualunque partito storico tra i tanti, ma la speciale ed unica forma che è quel partito rivoluzionario il quale primo e solo impersona il compito storico della classe proletaria moderna, e fa di essa non solo fine a sé medesima, ma mezzo per la realizzazione del programma comunista. Il socialismo, disse Engels nella sua prima redazione catechistica del Manifesto, è la dottrina delle condizioni della emancipazione del proletariato. Non meno generale è la citazione della frase che la emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi. Sono posizioni dialettiche a fronte della pretesa che il proletariato moderno sia stato già emancipato dal liberalismo borghese come tappa finale, e di quella peggiore oggi dilagante che possa essere emancipato dalla massa "popolare" piccolo borghese o populismo.

E l'altra nota massima di Lenin che deve servire la rivoluzione per il proletariato, ma non il proletariato per la rivoluzione va compresa dialetticamente (ogni nostra tesi va impiegata dopo aver chiarito l'antitesi che la sollevò storicamente) nel senso che la classe operaia non è una forza al servizio di una qualunque rivoluzione (si trattava allora di quella che creò la tedesca repubblica di Weimar) ma che la lotta rivoluzionaria va per noi condotta pei fini propri della classe proletaria, ossia per il programma comunista.

La obiezione che i capi rovineranno tutto è una secolare risorsa della polemica antisocialista dei ventri dorati, i quali ai lavoratori dicevano: volete unirvi per difendervi da voi stessi? Ebbene, avrete bisogno di chi vi organizza e lo dovrete pagare con quegli stessi sacrifici che oggi dite di fare per noi padroni. La modernissima pudicizia, da zitelle inacidite della rivoluzione, contro la coraggiosa leale e disinteressata rivendicazione della dittatura del partito comunista come unica forma reale della dittatura del proletariato, non è che una ennesima edizione di quella tradizionale reazionaria obiezione.

La sola forma invece che eviterà le degenerazioni bonziste è quella in cui la aperta dichiarazione del partito che tende ad avere tutta la direzione della lotta rivoluzionaria non sarà sostituita dalla ipocrita offerta di consultare democraticamente le masse, più o meno popolari, per mettersi al servizio della volontà da esse manifestata, quale che essa sarà. La formula servire il proletariato, anzitutto nella pratica esperienza è stata usata da tutti i traditori storici della rivoluzione venduti e demagoghi; ed inoltre echeggia una sporca mentalità borghese. Servire (profitta di più chi meglio serve) è la divisa del Rotary Club internazionale, ossia della organizzazione mondiale dei predatori di plusvalore, interessati a mostrare che il loro fine è il solito bene universale.

La storia dei travagli del partito operaio di classe, lunga e sanguinosa, finirà quando il partito avrà superata la fase vergognosa dello stupido corteggiamento ai proletari, che ne vuol fare elettori o pagatori di quote sindacali, ma non li scuote rivoluzionariamente da quelle catene della loro servitù, meno visibili e contro le quali non basta nessun eroismo, che portano dentro sé stessi.

Non rifaremo dunque qui la storia dei trascorsi e dei pericoli delle forme apartitiche. È ad esempio un rimedio, come pare si illudano alcuni ideologi cinesi, il decentrare dallo Stato alle comuni locali, al pericolo dei capi prepotenti o delle temute cricche e gang di potere, dei colpi di palazzo, e simili letterarie ombre sinistre? A questa bambinata basta a rispondere un episodio che si racconta da secoli ai giovani. Giulio Cesare, il dittatore per antonomasia (al cui cospetto i moderni non sono che poveri pisciarelli pendenti) traversando un povero villaggio alpino virilmente esclamava: preferirei essere il primo in questo villaggio anziché il secondo in Roma!

Se la persona è un pericolo - in effetti essa non è che un vaneggiare millenario degli uomini nelle ombre che li dividono dalla loro storia di specie - la via che lo combatte sta solo nella unitarietà qualitativa universale del partito, in cui si attua la concentrazione rivoluzionaria, oltre i limiti della località, della nazionalità, della categoria di lavoro, della azienda-ergastolo di salariati; in cui vive anticipata la società futura senza classi e senza scambio.

 

Il partito "carismatico"

Spaccati borghesi e qualche sinistro andato a male vedono invece come rimedio alle forme recenti del degenerare borghese, alle oligarchie, cricche pretoriane, gangs criminali, bande di vampiri del potere, ed altre fumettistiche figure di cui è piena la stampa e la blaterazione contemporanea per la credulità dei minchioni, una "garanzia" non meno idiotamente presa a prestito negli arsenali borghesi, la "democrazia", trasportata dalla universalità costituzionale nei campi più ristretti - dove maggiormente è vana illusione - della classe e dello stesso partito.

Entro limiti storici ben definiti il meccanismo elettivo e consultivo ha un certo gioco effettuale, in quanto non può mai uscire dal cerchio mercantile e costituzionale borghese, ma può servire a temperare - a fine nettamente controrivoluzionario - taluni sgarri estremi di disamministrazione e di sopraffazione, che giovano a singoli componenti della classe dominante ma non alla causa conservatrice della classe dominante stessa. Ma anche in questo campo concreto, vogliamo rilevare, la garanzia che l'abuso sia evitato o represso non sta nelle autonomie periferiche o di categoria ma nella estensione delle cerchie di organizzazione e di potere, che mano mano che si estendono e si elevano valgono di istanze superiori e di poteri correttivi a quelli inferiori e ristretti.

La organizzazione interna del partito ha potuto e potrà servirsi a fini puramente meccanici di un simile sistema che indubbiamente ha le forme di una gerarchia, ma non racchiude nella virtù del suo ingranaggio nessuna "assicurazione" contro le crisi storiche, la cui causa è altrove. Quindi da decenni e decenni la Sinistra nostra ha chiarito che il partito contingentemente neppure è infallibile, e risente dialetticamente nella sua struttura degli effetti delle sue azioni verso l'esterno; subisce malattie e crisi, e paga il fio, con scissioni risanatrici e lunghe attese storiche, dell'aver deviato dalla invariante dottrina classica, dell'avere intorbidata la sua organizzazione interna e la sua manovra strategica: di qui la nostra condanna di blocchi, fronti, fusioni, reti insinuate in altri partiti e così via. Non è questo il luogo di mostrare come tutti i crolli nell'opportunismo sono legati storicamente ad episodi di quella natura, e meglio lo mostrerà la "storia" della lotta della Sinistra, in preparazione.

Questo arduo problema della vita contemporanea è visto in modo banale dagli ideologi borghesi i quali trattano metafisicamente di una evoluzione nella struttura di tutti i partiti moderni, in generale, in tutti i paesi, e qualunque sia il loro programma, o come noi meglio diremmo la loro base di classe.

Nella rivoluzione liberale avrebbe giocato la forma sana e pura del partito politico, basato sulla democrazia interna e sulla libera adesione degli iscritti che avveniva per fatto di opinioni nutrite, di confessioni. Questo meccanismo viene presentato come una predominanza della "cultura" sulla "politica". Esso non esclude che il partito generico abbia una gerarchia, ma la apologizza secondo uno schema ingenuo: il capo sarà il più dotto e sapiente, e la dirigenza politica, nel dolce Ottocento borghese liberale, sarebbe stata condotta da maestri sugli allievi sicché l'autorità nei partiti avrebbe avuto un contenuto intellettuale. Questo apparato politico sarebbe addirittura un correttivo della pesante burocrazia amministrativa!

È ovvio tuttavia che il toccasana era la democrazia, e che in questi partiti-scuole gli allievi si eleggevano i maestri. Nell'ultimo secolo una tale illusione è caduta, perché sono sorti i "partiti di massa", in cui la base ha perduto i diritti democratici e i capi sono piovuti dall'alto, e misteriosamente accettati. Tutta la spiegazione che ci è data di questa palingenesi storica sta nel dire che il gregariame segue il capo e la stretta corte che lo spalleggia perché ravvisa in lui un "carisma", ossia una grazia come divina, che egli solo possiede e può amministrare ad altri se vuole. La cultura sarebbe andata a farsi fregare, la politica avrebbe messa sotto i piedi la "cultura", nella società del Novecento. Il Capo non diviene tale perché è il più sapiente, ma il suo verbo fa testo perché egli è il Capo; sia pure un cazzaccio, diviene il Migliore.

 

La forza o la ragione

Abbiamo notoriamente condotta la critica della concezione del partito di massa e della maniera di direzione dei partiti comunisti introdotta nella Terza Internazionale sotto il deforme nome di bolscevizzazione; ma non abbiamo mai voluta vedere confusa questa nostra critica con quella che può essere dettata da posizioni apologetiche della democrazia generica, che idealizza un tipo buono per i partiti di tutti i colori e sbocca dove sboccarono come da facile previsione nostra gli stalinisti: in un piatto pacifismo sociale.

Sono dunque due quistioni ben distinte quella della natura del partito comunista e quella della evoluzione in tempo borghese della forma partito, o del rapporto politica-cultura.

Questa formula odierna del capovolgimento di una simile relazione a vantaggio del termine politica e contro quello cultura la troviamo attribuita in articoli del Perticone al noto sociologo tedesco Max Weber, che quanto meno avrebbe al tempo dell'altra guerra teorizzato il partito "democulturale" restando poi travolto nella delusione hitlerista-stalinista. Sono dunque sempre ex-semimarxisti che vengono tra i piedi.

A noi interessa stabilire, prima di dire delle recentissime forme totalitarie e della spiegazione-deplorazione "carismatica", che mai il marxismo ha avuto nulla di comune con una teoria "dei partiti" in cui questi abbiano nella loro dinamica l'equilibrio ponderale delle opinioni degli aderenti. Nella nostra concezione del partito rivoluzionario questo ha la sua dottrina, e tutti i suoi componenti la accettano e condividono, ma non per questo hanno ad ogni stormir di fronda la facoltà di mutarla con consulte numeriche, perché essa nasce collettiva ma unitaria per forza della vicenda storica e non per un associarsi di cellule soggettive. Ma è la concezione di un solo partito.

Quanto agli altri partiti ci fa ridere la leggenda di una età dell'oro, democratica e di tipo scolastico e pupo-eruditivo. Nella rivoluzione borghese anche essi furono poggiati sulla dittatura e sul terrore; si dissero illuminati ma tale illusione la distrusse non Marx, ma perfino Babeuf quando teorizzò che nella lotta sociale la forza ha diritti maggiori della ragione; e quindi il partito razionale visto dal Weber non ha alcuna origine proletario-socialista. Siamo sempre lì; la scuola dei proletari sarà la vittoriosa rivoluzione, che per ora chiede ad essi le loro mani armate, ma non può chiedere loro una laurea politica; anche a quelli inscritti al partito non si chiede un "esame di cultura". Fin dalle lotte della Seconda Internazionale, la Sinistra ha deriso la tesi del partito "culturista".

Fin dal loro sorgere i partiti della borghesia hanno espressi e difesi interessi di classe e non cristallizzazioni di opinioni professate: i molti partiti medio borghesi e piccolo borghesi hanno costituito meccanismi per la trasformazione delle richieste dell'alto capitale in superstizioni politiche delle classi medie e della imbelle piccola borghesia. Quelli di essi che maggiormente reclutavano i loro aderenti nei ceti "intellettuali" sono quelli che meno chiaro hanno visto nella storia e nella società, e hanno fornito eroi ingenui alle imprese e conquiste del capitalismo europeo lasciandosi inculcare come ideali i suoi loschi appetiti: in tutto il Risorgimento Italiano troviamo solo una grande eccezione a questa corbellata razionalità e "culturismo" della lotta politica, nel marxista che non ebbe tempo di leggere Marx, Carlo Pisacane, che tuttavia dette la vita alla causa nazionale, ucciso prima che dalla sbirraglia dal contadiname analfabeta e aclassista.

 

La ridicola epoca dei big

Alla contrapposizione fatta dal Perticone tra la fase dei partiti di democrazia volontaria e quelli di cieca disciplina ad un centro motore che la base riconosce in dati nomi o peggio in un solo Nome; ove si tolga ogni rimpianto, alla Weber, di quel primo tipo, ed ogni prospettiva di una sua riapparizione di domani in una nuova giostra liberale pluripartitica (che mai nel passato ha giocato realmente) può darsi una portata solo in quanto si svolga la critica della degenerazione contemporanea della società borghese, e si sappia non identificare metafisicamente la strada opposta per cui si giunse, ad esempio, al partito di Stalin, e a quelli di Hitler, Mussolini, o poniamo oggi De Gaulle.

La caratteristica di queste mostruose organizzazioni, la cui vera causa è la passività delle masse in una società in decomposizione, che non è difetto di "cultura" o mancanza di "maestri", ma difetto di forza meccanica rivoluzionaria per note cause complesse e remote, sta nello strano assurdo che da tutte le parti il sistema moderno "carismatico" che fa ovunque e sotto tutti i cieli e climi del capo un idolo (quanto fragile e caduco!) si difende appunto apologizzando lo stupido toccasana democratico e vanta adesioni consultive e plebisciti di pretese "coscienze".

Gli stati totalitari come Germania, Italia e Giappone sono stati travolti dalla guerra e con essi i loro partiti di governo. Tra i vincitori, gli occidentali sono democrazie parlamentari permanenti e in questa forma giuridica si sono sempre più sforzati di organizzare i paesi del mondo su cui influiscono. La Russia e gli Stati con lei connessi internamente hanno conservato il sistema monopartitico e non hanno partiti concorrenti al potere; ma la politica che conducono all'estero i partiti comunisti di nome è tutta imperniata sulla apologia aperta della democrazia elettiva, che essi pretendono dai governi locali. Nella polemica tra i due blocchi di Stati e di partiti la rivendicazione democratica è sempre in prima linea, e l'accusa più frequente è di avere fatto oltraggio alla elettorale manifestazione della volontà popolare. Ognuno dei contendenti adopera come verità evidente l'accusa che l'altro perpetra tale infamia.

Malgrado questo sciupio di invocazioni alla sovranità popolare a base larghissima, tutte le volte che questi poteri mondiali si incontrano resta regola comune, ed accettata in contraddittorio gli uni verso gli altri, che i milioni di uomini, i cui interessi (non diremo nemmeno le cui opinioni) sono in ballo, sono lontani spettatori di una adunata di quattro o cinque personissime accampate al vertice in delega dei quattro o cinque governi degli Stati più mostruosi, e tutto si decide, in questo democratico e popolare mondo, da quei cinque al massimo "big"; ossia da cinque tipi su due miliardi di membri della specie umana, tutti "demosovrani"; da cinque altissime figure a cui votammo la apostrofe di un dimenticato poeta, citata ironicamente come il più bell'endecasillabo della letteratura italiana: "O big piramidal, che fai tu lì?".

Potrebbe la democrazia essere più decaduta e bassamente svergognata di così?

Quali chances alla sociologia razionale delle opinioni delle élites, delle scelte di uomini coltivati, che dovrebbero condurre, nella illusione di Weber, la vita politica mondiale, scambiandosi ogni tanto il potere con elegante fair play, con tollerante cavalleria?

Fu detto contro la sinistra marxista, negatrice del partitone mostruoso e della adulazione delle masse, che noi tenevamo della teoria delle élites intellettuali. Ma noi siamo tanto contro la democrazia nella società nella classe e nel partito, cui invochiamo una centralità organica, quanto contro la funzione delle élites dirigenti, cattivo surrogato del Capo persona, marionetta collegiale messa al posto di quella isolata, il che in dati svolti è un passo indietro. La differenza sostanziale sta nel fatto che la nostra dottrina non considera una costellazione di partiti, ma la funzione di uno solo, il cui dialogo con tutti gli altri non è intellettuale né culturale, e giammai elettorale e parlamentare, ma è affidato alla violenza di classe, alla forza materiale che ha per suo traguardo la sottomissione e la distruzione di ogni altro.

Il partito che noi siamo sicuri di veder risorgere in un luminoso avvenire sarà costituito da una vigorosa minoranza di proletari e di rivoluzionari anonimi, che potranno avere differenti funzioni come gli organi di uno stesso essere vivente, ma tutti saranno legati, al centro o alla base, alla norma a tutti sovrastante ed inflessibile di rispetto alla teoria; di continuità e rigore nella organizzazione; di un metodo preciso di azione strategica la cui rosa di eventualità ammesse va, nei suoi veti da tutti inviolabili, tratta dalla terribile lezione storica delle devastazioni dell'opportunismo.

In un simile partito finalmente impersonale nessuno potrà abusare del potere, proprio per la sua caratteristica non imitabile, che lo distingue nel filo ininterrotto che ha l'origine nel 1848.

Tale caratteristica è quella della nessuna esitazione del partito e dei suoi aderenti nella affermazione che è sua funzione esclusiva la conquista del potere politico e il suo maneggio centrale, senza mai nascondere in nessun momento questo scopo, e fino a quando tutti i partiti del Capitale, e del suo servidorame piccolo borghese, non saranno stati sterminati.

 

Il programma comunista,  n. 22, 4-18 dicembre 1958