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archivio > Archivio sulla sinistra>Abbiamo rivisto l'Italia (Battaglia comunista, n. 1, 27 giugno 1945)

aggiornato al: 04/04/2010

Battaglia comunista, n.1, 27giugno 1945

Riproponiamo tre articoli apparsi nel primo numero di  Battaglia comunista  che uscì nel giugno del 1945;  il fascismo era stato sconfitto e stava iniziando un dopoguerra pieno di incognite.

Quei tempi sono molto lontani, e la sensazione di quella lontananza è acuita dalla lettura degli articoli, ma comune e presente è lo sfruttamento e la sottomissione di un proletariato confuso e dominato ideologicamente dal nemico di classe, un proletariato che, in tutti gli anni che da allora ci dividono, purtroppo  solo sporadicamente ha saputo alzare la testa.

Abbiamo dato il titolo di questo inserimento al secondo degli articoli riprodotti  Abbiamo rivisto l'Italia, commovente scritto di un ignoto compagno napoletano costretto all'esilio dalla guerra e dal fascismo che descrive la terra martoriata che incontra man mano che si avvicina alla sua città.

 

 

Crisi nel regime

 

Anche questa crisetta di governo è apparsa povera cosa e si è risolta giolittianamente nel tentativo di accontentar tutti gli appetiti e praticamente non soddisfacendone alcuno. L'episodio potrà essere materia di notazione per cronaca parlamentare, e in realtà esso non traccia alcun segno nella coscienza nazionale e non ha punto appassionato le grandi masse dei lavoratori. Gli italiano sembrano crucciati e sono indifferenti a questo vecchio trucco di alchimia politica.

Noi, che abbiamo seguito con occhio vigile agli interessi del nostro movimento questa faticosa gestazione del nuovo governo, che avrebbe dovuto vedere l'avvento delle sinistre per l'effetto di una seconda grande «rivoluzione parlamentare», non attendiamo che il nuovo esperimento si compia per formulare la nostra critica, ma diciamo subito che non ci attendiamo da questo nuovo governo del C.L.N. alcuna modificazione nei rapporti sociali né quindi un improvviso e taumaturgico precipitare nei rapporti di forza sul piano della lotta politica tra proletariato e borghesia.

C'è in verità un sensibile decrescere nel mordente delle forze politiche legate alle ragioni ideali della cosiddetta insurrezione di aprile, alla sua natura, alla sua evoluzione o, più precisamente, alla sua involuzione. Avevamo del resto affermato, ripetuto e dimostrato al lume dei fatti che un moto con caratteristiche prevalentemente militari, apparentemente e solo apparentemente legato ad una situazione politica antifascista, ma di fatto e più concretamente alle necessità, agli sviluppi e alla condotta della guerra sotto la guida dello Stato Maggiore alleato, non poteva avere che questo risultato: messa in moto delle masse, loro ubriacatura patriottarda e caccia al fascista come diversivo atto ad occultare sotto la cortina fumogena dell'antifascismo democratico l'inanità di un'azione priva, per il proletariato, di qualsiasi interesse fondamentale di classe.

Però le masse, messe così in moto, benché contenute nell'ambito delle forme e degli interessi borghesi, hanno ascoltato la voce del loro istinto di classe, e premono ora verso obiettivi più concreti, più loro.

Osserviamo che questa è in realtà la nota caratteristica della presente situazione che maggiormente interessa ed appassiona noi rivoluzionari, ma nel contempo saremmo ciechi se non riconoscessimo che la manovra borghese di mettere in moto le masse per un obiettivo di conservazione è pienamente riuscita. Cosicché gli esponenti dei partiti proletari ne sono stati gli agenti più o meno consapevoli. Il gioco non è nuovo alla borghesia: servirsi del metodo fascista contro la democrazia parlamentare quando questa ha portato a termine il compito di addormentare le masse; servirsi del paravento democratico contro il fascismo quando questi ha fatto del suo meglio per risvegliare nel proletariato, sotto lo stimolo di una feroce repressione di classe, il senso profondo della sua missione storica, la necessità della sua lotta.

Saremmo affetti da cretinismo parlamentare, malattia tornata di moda sotto il bel sole di Roma, se non riuscissimo a vedere sotto la scorza degli avvenimenti di questi giorni. Per noi il dualismo accesosi nell'ambito delle forze del C.L.N. non rappresenta alcun conflitto di classe, e in realtà nessuna scalata al potere da parte delle forze rivoluzionarie mimetizzate di democrazia progressiva: ogni sostituzione avrà carattere di contingenza, sarà orchestrazione di esecutori svuotati di ogni iniziativa musicale, privi d'ogni indipendenza nella creazione della loro arte.

Ecco perché il ruolo delle responsabilità politiche e degli stessi partiti di destra o di sinistra è ruolo di secondo piano; che al timone dello stato vi sia De Gasperi o Nenni, Parri o Togliatti, ciò non vuole dire altro che una sarà la politica da amministrare: quella del capitalismo italiano asservito allo stato maggiore economico anglo-americano, uno il risultato: il consolidamento del fronte della controrivoluzione.

I responsabili? Noi indichiamo i socialisti e i centristi come i soli responsabili di questa situazione, e li inchiodiamo a questa loro responsabilità. Essi hanno tradito il proletariato aderendo alla guerra di affamamento e di oppressione; lo hanno tradito legandolo organizzativamente ai C.L.N. nei quali covano le idee e le forze della nuova reazione; lo hanno tradito spingendolo ad un'azione armata, parodia tragica della rivoluzione, che doveva riportare a galla quella borghesia delle brigate nere che la guerra stava sommergendo nei suoi vortici di sangue; lo stanno tradendo infine al tavolo della pace, impegnandolo a ricostruire la sconvolta economia capitalista col proprio lavoro e con quello delle venture generazioni operaie.

In questo senso, la democrazia progressiva di Nenni e Togliatti cessa di essere accorto espediente tattico e riesce ad inserire la massa nella direzione del governo mostrandosi così per quella che veramente è, la manovra cioè meglio concepita e meglio realizzata per guadagnar tempo, e sul letto delle libertà formali dare nascimento ad un nuovo fascismo per una più sostanziale e costruttiva difesa del privilegio. Questi signori, o non sono mai stati marxisti, o non sono mai stati socialmente e psicologicamente atti a comprendere la lezione del marxismo scaturente dalla stessa elementarità delle cose capitaliste: da una situazione obiettivamente reazionaria, e la guerra rappresenta la manifestazione estrema dello sforzo reazionario del capitalismo, non può sorgere una democrazia sinonimo di libertà sia pur essa borghese, perché storicamente anacronistica; da un'economia accentrata o pretesa verso forme di accentramento attraverso i monopoli e i trust, in una parola da un'economia controllata e disciplinata dall'alto non possono originarsi sul piano politico che regimi di autorità e di dittatura; e quando una tale realtà si ammanta di ideologie democratiche, statene certi, esse non sono che semplice espediente propagandistico e tattico per turlupinare il proletariato e aggiogarlo più saldamente al moto di consolidamento del capitalismo.

Non a caso perciò si addensano sull'orizzonte io segni della ripresa reazionaria nel momento stesso in cui i cafoncelli del più recente opportunismo operaio accettano dalle mani del Luogotenente sabaudo, tanto odiato e bestemmiato, l'incarico di ristabilire l'ordine borghese e di lavorare alla sua rinascita.

C'è grigiore attorno, è vero, e sentore di riacceso odio antiproletario, ma di chi la colpa se non di coloro che per una ragione di bassa bottega politica o di ambizione personale hanno ancora una volta tradito la causa della rivoluzione?

Non tutti però hanno sbandato dalla linea del marxismo; dimostrazione vivente sono la vitalità, lo sviluppo, l'entusiasmo nel lavoro e nella lotta di questo nostro partito, postosi con chiarezza d'idee e volontà di realizzazioni concrete a guida del proletariato rivoluzionario.  

 

 

Abbiamo rivisto l' Italia

 

Napoli, giugno

Non è stato un sogno: abbiamo rivisto l' Italia. Abbiamo rivisto le città che non rivedevamo da anni, di cui i bollettini di guerra ci ricordavano i nomi, sulle quali passava inesorabile, mentre noi ascoltavamo la radio, il rullo compressore della guerra. E, per molti di questi paesi e di queste città, non avremmo voluto credere che li avremmo ritrovati, come li abbiamo ritrovati, puri nomi, ammassi grigi e contorti di macerie in un paesaggio di terre rosse arate da cannone: i paesi grossi e piccoli lungo la Futa, le borgate e i villaggi di una Toscana già pingue.

Abbiamo visto la periferia di Bologna in frantumi, i vecchi quartieri intorno al Ponte Vecchio di Firenze saltati in aria, Viterbo irriconoscibile, i Castelli Romani devastati. Formia brulicante di poveri bimbi cenciosi tra le rovine delle case, Capua grigia della polvere delle sue mure. E, man mano che scendevamo verso sud, ci sembrava che la vita stentasse a rinascere dai luoghi battuti dalla morte, e le città ci apparivano quali avrebbe potuto ridurle, appena un giorno prima, il terremoto; città forse non più destinate a risorgere.

Abbiamo visto nei grandi centri, che pure per tutto l'inverno hanno sofferto la fame, i negozi improvvisamente colmi di merci, i ristoranti non più vincolati dalle restrizioni di guerra, il mercato nero divenuto palese, scoperto, legale, nelle vetrine, per le strade, agli angoli delle piazze. E, mentre ammiravamo nelle vetrine le merci non più viste da anni, e nei ristoranti risorgevano ai nostri occhi i classici pranzi di anteguerra, ci seguiva come un incubo la immagine delle lunghe code di popolane per le quali il prosciutto e la carne e le scarpe continuano ad essere un sogno, degli operai che non trovano più lavoro nelle fabbriche orrendamente sventrate, degli scugnizzi che si affollano laceri ad ogni fermata di automobile, della gioventù randagia che a Napoli è vissuta, in questo duro anno di fine guerra, di furti, di espedienti, di prostituzione.

Abbiamo visto, più ancora che nel Nord, lo spettacolo atroce di un pescecanismo che affolla ristoranti e caffè accanto alla miseria di cui nessuno si cura, lo spettacolo di un popolo che ha fatto la fame perché la merce c'era ma gi speculatori preferivano tenerla nascosta in attesa di ulteriori aumenti dei prezzi, e che continua a farla perché la merce, tornata a comparire dietro i vetri dei negozi, è e rimane dominio esclusivo dei ricchi.

Abbiamo letto di razioni alimentari insufficienti, di deficienza paurosa di calorie nel vitto normale della popolazione cittadina, di preoccupante aumento della morbilità,. mentre nei ristoranti,liberi ai portafogli ripieni, le bistecche erano alte due dita e larghe due spanne. E ci chiedevamo come avrebbe potuto vivere l'enorme alveare umano di Napoli senza la corruzione e la delinquenza fiorite al seguito degli eserciti e lungo i  moli del porto, o la Calabria senza brigantaggio...

A Roma, pigra e assolata, continuava l'alchimia ministeriale.

 

 

 

L'ora della decisione

 

Quando, un anno fa, analizzando la situazione del proletariato italiano e internazionale nel quadro del conflitto e le prospettive che si delineavano per una soluzione rivoluzionaria, constatavamo che la guerra, mentre approfondiva coi suoi terribili effetti disgregatori la crisi in atto della società capitalistica, riusciva pur tuttavia sul piano politico a tenere imbrigliata la classe operaia nel cerchio di ferro dell'unione sacra, avevamo ragione.

In realtà, né la crisi del 25 luglio - primo serio annuncio di una frattura profonda nell'ordine sociale borghese - né la seconda e definitiva crisi del fascismo - ultimo anello di una catena di sconfitte militari e di insuccessi politici, - vedeva il proletariato spezzare i legami che lo tenevano avvinto alla guerra e porre in termini precisi e radicali il suo problema di classe. La liquidazione del fascismo avveniva bensì in entrambi i casi attraverso esplosioni violente di furor popolare, la classe operaia si trovava bensì alla testa della lotta contro i residui sanguinanti di un regime di reazione borghese, ma la crisi non sfociava su un terreno aperto di lotta di classe e, appena scoppiata, si riassorbiva nei limiti della legalità capitalistica, obbediva nei suoi sviluppi alle leggi ferree e inesorabili del conflitto. Le forze politiche del proletariato continuavano ad essere quelle ch'erano state all'inizio della guerra, erano esse stesse strumenti di guerra.

Il periodo che va dal luglio 1943 all'aprile 1945 non ha fatto che ribadire la tragica realtà di un equivoco che, mentre da una parte spingeva il proletariato ad una lotta eroica contro la sopravvivente struttura del fascismo, consolidava, proprio attraverso questa lotta, le posizioni politiche, militari, diplomatiche della democrazia.

Passato il turbine di vento dell'insurrezione, il gioco politico è continuato sugli stessi binari. Epurazione, repubblica, governo di popolo: l'agitazione dei grandi partiti operai non va oltre questi termini di un'esperienza borghese, né vale a spostarli la rivendicazione, lanciata da qualche partito progressista, del controllo operaio e della partecipazione proletaria alla gestione dell'azienda, espedienti tecnici cui la società capitalistica non ha mai mancato di ricorrere quando si trattava di far eludere al proletariato la questione fondamentale, il problema che è per lui di vita o di morte: la questione del potere.

Urge, oggi, ricondurre la lotta del proletariato sul terreno di classe. Il massimalismo che, nelle sue dichiarazioni programmatiche, pone sullo stesso piano le più fruste rivendicazioni del radicalismo borghese e le rivendicazioni massime del collettivismo senza preoccuparsi di gettare la basi di organismi rivoluzionari di classe, e, mentre si lancia in un pirotecnico gioco di estremismi verbali, condensa il suo programma nella lotta per la costituente e per un  «governo di popolo» prolungando nella pace gli organismi nati dalla guerra e operanti nel quadro della guerra, è costituzionalmente impotente a risolvere i problemi giganteschi che la crisi capitalistica pone al proletariato.

Per questo noi mettiamo in rilievo la questione dei consigli operai: non i C.L.N. aziendali, organi di compromesso chiusi nell'orbita della politica di guerra; non i consigli di gestione strumenti ideali per impegnare il proletariato ad una lotta legalitaria e riformistica nell'ambito della «ricostruzione» borghese; non la costituente, supremo diversivo gettato in pasto alla classe operaia nei più terribili momenti di crisi sociale, ma gli organi genuini della battaglia proletaria, gli organi in cui si cementa la sua unità classista, in cui si affila la sua volontà rivoluzionaria, in cui, attraverso il gioco di conflitti ideologici, matura la capacità del partito della rivoluzione a dirigere la massa verso la conquista del potere.

La preoccupazione dominante delle forze politiche borghesi è di chiudere le ferite aperte dalla guerra nella struttura sociale capitalistica. Il proletariato deve inserire violentemente in queste ferite il cuneo della sua volontà rivoluzionaria: non per rabberciare una società in disgregazione, ma per distruggerla.

 

 

 Battaglia comunista, n. 1, Milano, 27 giugno 1945