Cerca nel sito



 


archivio > Archivio sulla sinistra>A. B.: Mosca e la "Questione Italiana" (Rassegna Comunista, n. 5, 30 giugno 1921)

aggiornato al: 10/05/2010

Rassegna Comunista, n. 5, 30 giugno 1921

Proponiamo oggi questo importante scritto di Amadeo Bordiga tratto dalla rivista teorica del partito comunista Rassegna Comunista nel suo numero del giugno 1921.

Il Partito Comunista è nato, in Italia,  da pochi mesi e già si cominciano a sentire le voci, vista la sua poca forza numerica, di una unificazione con la maggioranza socialista (dopo che questa si fosse separata dalla destra turatiana).

Questa posizione sempre più caldeggiata dall'I.C. giunge nell'autunno del 1922, una volta consumata nel P.S.I. l'espulsione dei turatiani, alla proposta di fusione tra PCd'I e massimalisti socialisti in un Partito comunista unificato (come era successo in Germania), proposta che non si concretizzò... non tanto per il rifiuto di aderirvi dei comunisti quanto per il rifiuto dei socialisti.

Era iniziata la china della controrivoluzione contro cui, ad armi impari, si batté sino alla fine la Sinistra.

L'articolo ribadisce che non la volontà o le disposizioni di Mosca (che cominciano a remare in senso contrario a quelle di un'affermazione rivoluzionaria) portarono alla nascita del P.C.d'I. ma la maturazione autentica del radicalismo marxista in Italia.

In questo articolo, cosa abbastanza difficile da trovare, Bordiga  parla in prima persona in modo naturale e normale  senza che la cosa provochi alcunché.

Speriamo di poter ospitare prossimamente nel sito altri testi di questa pagina poco conosciuta di storia.

 

 

MOSCA E LA "QUESTIONE ITALIANA"

di Amadeo Bordiga

La questione centrale del III Congresso internazionale che si svolge mentre appare questo numero di «Rassegna Comunista» minaccia di essere la scissione italiana e il contegno tenuto nel suo esplicarsi dall'Esecutivo di Mosca. Tutto l'assalto del «centrismo», che tuttora ha qualche sentinella avanzata nel seno della Internazionale Comunista, si svolgerà nel sostenere questa tesi: «La politica dell'Esecutivo ha determinato la scissione del grande partito italiano aderente alla Terza Internazionale, punto di partenza di una crisi generale di essa». Ebbene: a parte la diretta confutazione di questa tesi, contenuta in tanti scritti comunisti, a parte il fatto che l'Esecutivo di Mosca merita alto elogio per la posizione presa nella questione, e che la scissione italiana è stata e sarà feconda di utili risultati per il movimento internazionale comunista, vogliamo qui brevemente affacciare una tesi pregiudiziale: cioè negare che la causa determinante della scissione italiana siano state le disposizioni della Internazionale Comunista, che essa sia stata un prodotto artificiale della capricciosa volontà di Mosca.

 

* * *

 

Chi abbia seguito il movimento socialista italiano negli ultimi anni e lo abbia giudicato con sereno spirito critico, non solo non ha il diritto di ritenere artificiale la scissione di Livorno, ma avrebbe da tempo dovuto prevedere che essa si sarebbe verificata. Se vi è stato qualche cosa di artificiale, ciò ha influito nel ritardare la crisi e nel farla produrre troppo tardi, quando i periodi che meglio si potevano utilizzare per una preparazione rivoluzionaria comunista già erano stati "sciupati" dal vecchio partito.

Queste cose non le diciamo certo ora qui per la prima volta. Esse sono riassunte, tra l'altro, nella relazione dei comunisti al Congresso di Livorno; ma chi dei congressisti se ne è occupato? Chi si è sforzato di assurgere ad una comprensione del problema storico di cui si era in presenza, che superasse le quisquilie serratiane sulle informazioni di Mosca e le «agevolazioni» fatte a Cachin?

Non tracceremo dunque qui certamente la storia del partito socialista italiano, ma rapidamente ne rammenteremo taluni episodi che conferiscono ad una efficace valutazione del problema.

Il partito era giunto alla vigilia della guerra avendo effettuata una scissione, quella di Reggio Emilia, completata ad Ancona colla esclusione dei massoni, ma senza avere con tutto ciò superato il fatto della convivenza di due ali in aperto dissidio teorico e pratico. Le violente polemiche scatenate dai moti della «settimana rossa» nel giugno 1914 lo dimostrarono, tra le altre cose, all'evidenza. La sinistra non aveva, è vero, una concezione ed una pratica precise e definite, ma la destra del partito era da essa separata da un abisso; iniziò una vera crociata contro l'uso della violenza e la predicazione di prospettive rivoluzionarie, e nella pratica avvenne quello che si ripetette poi regolarmente in tutte le situazioni: la direzione del partito trascinata dagli elementi estremi teneva, sia pure senza alcuna chiara preparazione dottrinale e tattica, una attitudine favorevole alla azione in senso rivoluzionario, mentre l'opera dei parlamentari socialisti e dei dirigenti della Confederazione del Lavoro, appartenenti al partito, scavalcava questa politica facendo trionfare le soluzioni opportuniste e transigenti.

Il partito conteneva in sé i germi di una scissione indipendentemente dai riflessi che ebbe poi la guerra sulle sue concezioni e sulla sua prassi. Se volessimo dare qui prove più ampie di tale assunto, basterebbe porre a raffronto scritti degli esponenti delle due ali per dimostrare la distanza enorme che li separa; e confermare così che, mentre la sinistra dette sempre prova di incertezze nel pensiero e nell'azione, la destra formulò sempre le sue tesi apertamente transigenti ed evitò di arrivare alla rottura solo perché non perse mai la speranza di dominare le situazioni reali e di evitare che le formulazioni e i propositi dei rivoluzionari potessero tradursi in atto attraverso il meccanismo del partito.

In un primo tempo lo scoppio della guerra europea sembrò cementare il partito. Messa la questione così: deve o meno l'Italia partecipare alla guerra? si incontravano nell'agitazione condotta tra le masse il no che ai rivoluzionari dettava il loro antimilitarismo privo di riguardi per lo Stato borghese e per la Patria, ed il no contingente dei riformisti che risolvevano la questione dal punto di vista di quello che convenisse fare al governo borghese italiano.

Se il Mussolini, che passava allora per il leader della sinistra, avesse conservato la posizione che assunse prima di passare all'aperto interventismo, di sostenere invece della «neutralità assoluta» la «neutralità attiva ed operante», esso avrebbe trovato attorno a quella formola, equivoca finché si vuole, il consenso della destra del partito, nella situazione che la guerra determinò. Contro quella formola chi scrive queste note (perdonerà il lettore alcune autocitazioni fatte a scopo assolutamente obiettivo) osservava che la parola "neutralità" era infelice perché si poneva implicitamente come soggetto lo Stato borghese, mentre il nostro punto di vista era che si dovesse conservare la posizione di intransigente opposizione alla politica borghese e militarista anche se questa si volgesse alla guerra - comunque, ed altresì nella ipotesi della «guerra di difesa» - e proponeva la formola «antimilitarismo attivo ed operante» a dimostrazione che l'avversione alla guerra non era formola negativa, come il termine "neutralità" poteva far credere, ma attitudine rivoluzionariamente attiva. Il valore della avversione alla guerra fu rivelato da un momento successivo, quando la neutralità borghese fu rotta. Alla vigilia della mobilitazione, il 19 maggio 1915, aveva luogo a Bologna un convegno per decidere sul da farsi e sulla proposta di sciopero generale in caso di mobilitazione. La destra del partito in una appassionata discussione, di cui è da rimpiangere non esista un resoconto esatto, si schierò sul terreno del «fatto compiuto». Essa conservava un barlume di speranza di evitare la guerra con le risorse parlamentari, che avrebbero dovuto spingersi fino ad una coalizione con Giolitti, ma nella ipotesi della mobilitazione dichiarava che al partito non restava che separare le sue responsabilità dalla dichiarazione di guerra, e poiché questa era scoppiata, dichiarare di non voler danneggiare la patria in lotta, e ridursi ad un'opera di «croce rossa civile». Benché noi della sinistra riducessimo le nostre proposte ad un minimo, disarmati da un ricatto della Confederazione del Lavoro che dichiarò che non avrebbe ordinato lo sciopero anche se il partito lo avesse voluto, fummo battuti da quell'ordine di idee in base al quale la opposizione alla guerra perde, come è evidente, qualunque sapore rivoluzionario.

In una nota che scrivevo sul giornale napoletano del partito, poche ore prima che la guerra scoppiasse, pur sotto un riserbo doveroso che rendeva necessario affermare che il partito era compatto "contro la guerra" (noi scontiamo ora la colpa di esserci accontentati di questa posizione... maltusiana allora e in seguito) dicevo che un insanabile dissenso di concezioni e di tattiche si era delineato, che l'esperienza della guerra avrebbe precisato, cosicché, aggiungevo, «fin da ora si può intendere la stragrande importanza che avrà il nostro congresso di dopoguerra».

Non rifarò la storia del dissidio durante la guerra. Una linea stridente ci divideva. Non dico che la linea dividesse la Direzione, rappresentante la maggioranza intransigente rivoluzionaria di Reggio e Ancona, dalla minoranza "riformista"; la divisione era altra: parte della Direzione, e talvolta la maggioranza di essa, gravitava verso destra. Noi della sinistra, sostenitori della tesi: opposizione alla guerra anche nell'azione pratica, fino al disfattismo, se da ciò possono uscire situazioni rivoluzionarie, fummo sempre in minoranza: così nel citato convegno di Bologna, così nel convegno di Roma del febbraio 1917.

Venne nell'ottobre 1917 la disfatta militare; la guerra prese l'aspetto di guerra difensiva. Il dissidio si acuì terribilmente, ma la mania dell'unità prevalse su tutto, anche in noi che consideravamo un patrimonio comune da salvare la opposizione, anche solo parlamentare, del nostro partito alla guerra, pur sapendo quali debolezze essa celasse. Ma allora, nelle polemiche che divampavano soffocate dalla censura, dominava la prospettiva della scissione «subito dopo la fine della guerra». Ci premeva portare in salvo l'onore del partito fino alla fine della guerra, poi eravamo certi che i problemi pratici della tattica proletaria avrebbero recata la chiarificazione.

Si badi, mi preme tanto poco di posare a precorritore degli eventi che aggiungo subito che la coscienza della scissione non era in me solo, ma in tutti. Se potessi riportare le note critiche dell' Avanti! dimostrerei come esse fossero tutte intonate a quel concetto: tolleriamo i destri, ma a guerra finita taglieremo i ponti. In questo atteggiamento, Serrati aveva noi con se, ma non la maggioranza della Direzione né del partito. Egli era però convinto che la scissione sarebbe avvenuta, e lo ha riconosciuto posteriormente con noi. Ma non basta. Lo stesso Turati presentiva questo evento immancabile, ed al congresso di guerra del 1918, che una serie di ragioni resero poco chiaro interprete della situazione del partito, chiudeva il suo discorso dicendo: occorre conservare «fino alla fine della guerra» l'unità del partito. Tutti sentivamo che un abisso si apriva tra noi.

Non era stato mai possibile portare la discussione fino allo svisceramento delle profonde antitesi teoriche tra le due correnti. A ciò contribuivano il carattere superficiale degli italiani, e le scorie di romanticismo rivoluzionario di molti degli estremisti, fermi alla derisione della precisa coscienza dei problemi del movimento, come "teoria" che contrastasse coll'azione. Cosicché il celebre congresso di Bologna dell' ottobre 1919 ebbe esito rovinoso. Le elezioni maledette costituirono il cemento che tenne unito il partito anche dopo che mancò la ragione della guerra. Condotta fino alla fine la opposizione alla guerra, bisognava consacrarla in un trionfo elettorale; questo l'errore, volendo porlo al di sopra di ogni valutazione di opportunismi personali. La preparazione elettorale già in pieno corso immobilizzava il congresso in una impotenza teorica e tattica. Serrati poté così porsi alla testa di quella frazione artificiale che fu il «massimalismo elezionista».

Io assumo che era solo un'apparenza, che era veramente artificiale, la divisione del partito in una maggioranza rivoluzionaria comunista e una minoranza riformista. Che una continuità storica collega la minoranza disfattista del periodo di guerra colla minoranza realmente comunista di Livorno.

La maggioranza di Bologna non aveva alcuna consistenza teorica né tattica. Essa affermò nella sua risoluzione il programma della dittatura proletaria, dell'adesione alla Terza Internazionale, del regime dei Soviet, ma la grande verità era quella detta tra gli schiamazzi da Filippo Turati: il Soviet è per voi il feticcio, ma non sapete quel che sia. La maggioranza di Bologna si era formata in modo equivoco. La vecchia Direzione era divisa, e Serrati era più a destra che a sinistra. Nell'ultimo periodo di guerra e nel primo dopo l'armistizio egli scriveva nell' Avanti! con grandi riserve sulle tesi comuniste e schierandosi per il programma dell'assemblea costituente enunciato dalla Confederazione del Lavoro e dai riformisti. Ma la stessa Direzione era disorientata. Il suo ordine del giorno di adesione ai concetti comunisti era infarcito di grossolani errori: parlava di «sciopero espropriatore», di «ferrovie ai ferrovieri, officine agli operai», ecc. Al convegno di Bologna del 13 luglio 1919, non la Direzione, ma molti compagni, che oggi in gran parte sono nelle file «unitarie» volevano deliberare la rivoluzione, ossia «lo sciopero espropriatore» per la domenica successiva, suggestionati dalla occupazione dei negozi da parte delle masse di alcune città. Tutti non si rendevano conto di quel che fossero gli aspetti del processo rivoluzionario e le sue necessità, tanto che quando taluno per avventura si provò a spiegarlo, scandalizzò i massimalisti... effimeri, e sollevò la compiaciuta meraviglia di qualche riformista. Il partito mancava di un briciolo di preparazione. Che cosa ne sapeva la maggioranza di Bologna delle posizioni di principio e di tattica dell'Internazionale Comunista? Meno che niente. I più non distinguevano il concetto di conquista del potere da quello di espropriazione capitalistica, non avevano idee sul problema dell'azione sindacale né su alcun'altra questione. L'imminenza della lotta elettorale ottenebrò tutto il resto, e soffocò uno sviluppo originale del dissidio maturantesi fatalmente sotto la superficie e che nella tattica da tenere in pratica durante la guerra si era delineato. Quindi fu possibile la formazione di quel blocco serratiano che non aveva omogeneità alcuna e che una migliore diffusione di coscienza comunista, insieme alle dolorose esperienze nel campo della azione, doveva spezzare.

Non è certo solo questione di orientamenti teorici: in pratica si rivelò ugualmente l'inconsistenza della omogeneità di tale frazione. Nella Direzione eletta, il dissidio fu incessante: Serrati era alla destra. Nell'azione parlamentare, e innanzi a tutte le gravi situazioni determinate da agitazioni proletarie, avvenne lo stesso. Ogni tanto gli attuali unitari rivelano questo stato di cose col dire: «la Direzione era in mano ai comunisti», talmente apparve naturale la divisione della Direzione in due frazioni di eguali forze allorché si dovette decidere sulle risultanze del congresso di Mosca, talmente c'era poco da meravigliarsi che il dissidio scoppiasse.

E che dire della celebre decisione bolognese di «costituire i Soviet» in Italia? E' la prova migliore che non si sapeva che cosa fossero, se organi politici o economici, di Stato o di lotta. Nè vogliamo qui rifare la dolorosa istoria di tutte le situazioni in cui l'implacabile sabotaggio della destra padrona dei sindacati immobilizzò nel ridicolo l'estremismo, colpevole di aver accettata la insostenibile posizione della unità del partito.

Già al convegno di Firenze (Consiglio Nazionale) nel gennaio 1920, riesce evidente quello che la parentesi bolognese aveva celato: Serrati gravita verso Modigliani in una valutazione centrista secondo cui «lo sviluppo della rivoluzione italiana non potrà presentare aspetti identici a quella russa, ma potrà emergere da azioni parlamentari» - questo, almeno, il senso delle dichiarazioni sempre ambigue della "destra". Al convegno di Milano poi le due correnti si separano nettamente nel voto; ancora la sinistra è in minoranza.

La situazione derivata dal congresso di dopoguerra fu dunque un colossale equivoco, il quale non fece che coprire agli occhi di chi osservava le cose superficialmente o di lontano la verità storica e la continuità logica del fatto che la corrente di sinistra del partito, maturante una vera coscienza comunista nell'incontro delle esperienze proprie della lotta proletaria italiana colle direttive della Terza Internazionale, considerate più seriamente che come un motivo di facile successo nelle elezioni, ne era in realtà la minoranza, l' "opposizione", mentre le redini del partito non avevano cessato di essere nelle mani dei fautori di un indirizzo che, in mancanza di migliore termine, si può ben chiamare "centrista".

Certo, la illusione che il partito fosse nella stragrande maggioranza rivoluzionario era alimentata dal fatto che in realtà era "rivoluzionaria" la situazione sociale e politica italiana, le masse erano in incandescenza e tendevano impetuosamente all'azione. Ma in questo sta appunto la chiave del "centrismo". Questo è definito da uno spirito contingente, da un empirismo che rifuggendo dallo sforzo di ogni preciso e continuativo indirizzo assume la tendenza di destra o di sinistra secondo il vento che tira. Temporeggiatore durante la guerra in una banale opposizione a parole, audace tra gli slanci delle folle del dopoguerra, per volgerli a successi elettorale e sindacali, quando non li trasse nella tagliola del tradimento, il "centrismo" ha rivelata la sua natura disfattista appena la situazione, anche per gli enormi errori commessi dal partito, è diventata più aspra e difficile.

La necessità per il partito di classe di un indirizzo dottrinario chiaro è rivelata ancora una volta da quello che avvenne a Bologna. La "sinistra" credette sul serio che la situazione avrebbe resi rivoluzionari perfino i riformisti, pensò che sarebbe stato tempo perduto una revisione di valori teorici e tattici nella imminenza di quella "azione" di cui spesso si parla senza avere nessuna idea di mezzi e di fini e lasciò correre le cose sul loro pericoloso andazzo. Essa dimostrava così di nulla avere assimilato delle esperienze estere sull'opera dei socialtraditori, che inutilmente furono da noi della pattuglia estrema prospettate ansiosamente.

Questa nostra tesi circa la suddivisione del partito italiano, che la situazione stranamente suggestionante del dopoguerra dissimulò nell'equivoco del «massimalismo elezionista» creato da Serrati dopo alcune settimane di esitazione tra il luglio e l'ottobre 1919, non deriva solo dal raffronto delle divergenze di guerra colla odierna scissione, non solo si eleva al disopra del valutare crisi individuali e atteggiamenti di singoli, ma è confermata dalla conoscenza del "meccanismo" costituzionale del Partito socialista italiano. Questo non era in nulla dissimile da quello di tutte le socialdemocrazie che avevano naufragato nel socialpatriottismo. Ogni meccanismo ha una sua legge funzionale che non ammette violazioni. Una tesi somigliante a quella che dimostra la impossibilità di prendere l'apparato dello Stato borghese e volgerlo ai fini della classe proletaria e della costruzione socialista, prova, tra le conferme molteplici della realtà, che la struttura dei partiti socialdemocratici dell'anteguerra colle sue funzionalità parlamentaristiche e sindacali non può trasformarsi in struttura del partito rivoluzionario di classe, organo della conquista della dittatura. L'etichetta massimalista è poca cosa, e l'esperienza italiana questo insegna, col fatto che la naturale evoluzione del partito è stata paralizzata dal "bisogno funzionale" di precipitarsi nel torneo elettorale e dai fatali legami coll'operaismo opportunista che ha recato trionfalmente suo prigioniero il "sinistro" Serrati, minaccioso intimatore in altri tempi di tutte le sanzioni contro i caporioni parlamentari e sindacali.

Subito dopo Bologna la corrente estrema del partito fece sua la tesi che la "purificazione" del partito era impossibile, e occorreva la scissione, da cui doveva uscire la organizzazione di "un altro" partito.

Chi scrive disse a Mosca pochissime parole sulla quistione italiana dalla tribuna del secondo congresso: prospettando che la critica comunista non doveva colpire il riformismo italiano dei Turati e dei D'Aragona, che è l'antitesi stessa del comunismo, ma il fallace «massimalismo elezionista», sintesi di termini inconciliabile e gerente di una politica disastrosa per le sorti della rivoluzione. Queste sono precise conclusioni critiche a cui tutto un esame ed uno studio del movimento che tutti noi abbiamo vissuto per dieci anni chiaramente conduce. Se ve ne fosse l'agio, sarebbe interessantissimo un lavoro dedicato ad illustrare con documentazione maggiore quanto abbiamo esposto, attraverso ricerche su tutto i periodo di cui si tratta, e che si potrebbe eseguire assai bene se si fosse in possesso di una collezione dell' Avanti! "fuori censura".

 

* * *

 

La conclusione è che la scissione di Livorno fu l'epilogo di uno sviluppo che non solo nelle sue cause e nel suo procedere sta al disopra di tutti i Serrati del mondo, ma della stessa volontà della Internazionale Comunista, e degli uomini responsabili del suo organo supremo. Le Condizioni di Mosca ebbero per crisma la scissione come avvenne a Livorno, in quanto sono una legislazione non arbitrariamente imposta da una oligarchia, ma scritta col concorso delle nozioni scaturite da tutta l'azione proletaria mondiale, ed anche dalle vicende italiane.

Nulla dunque di artificiale nella separazione del Partito socialista italiano. Se vi fu qualche cosa di artificiale fu il suo ritardo, ma questa artificialità va accettata come uno di quegli errori da cui si desumono migliori orientamenti tattici e, nella fattispecie, la necessità della "guerra al centrismo".

Se qualche cosa vi può essere di artificiale sarebbe solo una decisione del terzo Congresso - assurda ipotesi - nel senso di ritornare sul taglio fatto dalla storia a Livorno con decisioni che si approssimassero alle richieste del Partito socialista italiano. Ma questo errore sarebbe un errore infecondo in quanto già esistono esperienze sufficienti a provare che si dovrebbe presto amaramente pentirsene. Il centrismo può augurarselo, ma la Internazionale Comunista non può commettere una sciocchezza tanto imperdonabile, ammissibile solo in chi avesse per lettera morta gli insegnamenti del metodo marxista, e credesse - quegli sì - alla possibilità di infliggere artificiali storture al divenire della storia.

 

Rassegna Comunista, n. 5, 30 giugno 1921