Cerca nel sito



 


archivio > Archivio sulla sinistra>I comunisti non hanno nulla da nascondere (il programma comunista, n. 1, 10 gennaio 1970)

aggiornato al: 12/09/2011

Il Programma comunista, n. 1, 10 gennaio 1970

Quanto proponiamo oggi è il testo della dichiarazione che Bruno Maffi avrebbe voluto leggere nel corso del processo che gli fu intentato in quanto direttore responsabile di Il Sindacato Rosso per  istigazione all'odio fra le classi in riferimento ad un articolo pubblicato nel numero di aprile 1969 di quel giornale.

In quella occasione Bruno Maffi  fu condannato a 6 mesi con la condizionale e gli fu impedito di leggere la dichiarazione che qui riproduciamo (che apparve più tardi in il programma comunista)

 

I comunisti non hanno nulla da nascondere

 

La condanna di un nostro compagno a sei mesi con la condizionale per «istigazione all'odio fra le classi» non ci strappa nessun urlo su libertà violate, tavole costituzionali infrante, articoli del codice fascista rispolverati. Il mondo dei cosiddetti valori democratici non è il nostro, e abbiamo sempre negato la sua antitesi al mondo dei cosiddetti valori fascisti. Registriamo il fatto, semplicemente: non vi piagnucoliamo sopra.

La nostra «difesa», in casi come questo, non può essere che la riaffermazione - contro ogni deformazione interessata - della nostra dottrina, mille e mille volte pubblicamente proclamata, mai nascosta, mai adulterata per comodo personale o convenienza collettiva.

Le cause prime dei fattori storici e sociali sono i fattori economici. Rispetto a questi - non per volontà, disegno o «cattiveria» di singoli o gruppi - la società è divisa in classi i cui interessi contrastano e sono fra  di loro in lotta: la natura e lo svolgimento delle lotte di classe determinano e spiegano i fatti politici. Non siamo noi (diceva Marx nel 1852 nella famosa lettera a Weydemeyer) ad aver scoperto questo elementare punto di partenza: apertamente un secolo addietro, a denti stretti oggi, lo riconoscono gli stessi borghesi; lo si trova scritto e ripetuto perfino nella più blanda, rosea e, se è lecito dirlo, saragattiana, rivista socialdemocratica. Che la lotta fra le classi sia accompagnata da sentimenti come l'odio per l'avversario e l'amore (la solidarietà) per il compagno d'armi, è altrettanto inevitabile, quanto è inevitabile la lotta: essi nascono dai fatti della società in cui proletari e borghesi vivono e si combattono, e per spiegarli, non c'è bisogno di cercare «istigatori» più che, per spiegare la peste, fosse necessario perseguire gli «untori» di manzoniana memoria. (Sia detto fra parentesi, i coriferi della borghesia trovano pienamente legittimo, anzi sacrosanto e moralissimo, coltivarli nella truppa e nell'ufficialità quando scoppiano le guerre fra Stati). Nei grandi svolti della storia (e qui i borghesi, come i socialdemocratici, non ci seguono più, e anche questo è un fatto oggettivo), la lotta di classe assume le forme e i caratteri estremi della rivoluzione, della lotta per la conquista del potere, del suo esercizio totalitario e dittatoriale da parte della classe vittoriosa; e che così necessariamente sia ce lo insegna, prima ancora di Marx, la storia e, in specie, la storia della moderna società borghese, che è nata, con tutte le sue forme parlamentari e democratiche, con tutti i suoi istituti politici, con tutti i suoi codici, dal cozzo violento fra l'esercito delle teste rotonde e quello dei cavalieri nella «patria del costituzionalismo», l'Inghilterra, fra sanculotti e aristocratici nella patria degli eterni principii, la Francia («les aristocrates à la lanterne», cantano il 14 luglio, orrore! i parigini danzanti per le strade) fra gli eserciti coloniali di Washington e gli eserciti imperiali di Gage nella patria della «dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino», l'America. La borghesia nascente irrise la bolsa interpretazione «medievale» che appioppava la «faute» (la colpa) di ogni «sventura» a Voltaire o a Rousseau; la borghesia decadente non può spiegarsi il più banale fatto storico, il più mite episodio di collera o di rivolta della classe oppressa, se non con l'intervento istigatore e provocatorio dell'ultimo dei discepoli non più di Voltaire, ma di Marx. Essa, che canta i suoi guerrieri bagnati di sangue, non concepisce neppure che per i rivoluzionari marxisti non si tratta di «istigare» una «violenza» e un «odio»  che trasudano da tutti i pori della società presente  e di cui siamo testimoni ogni giorno, ma di volgere ad esiti positivi per tutta l'umanità, disciplinandola, la collera degli oppressi, di quella che i loro poeti chiamano (perché e finché serve ai borghesi) la «santa canaglia».

E' il partito, sono i rivoluzionari marxisti, a «scatenare» la rivoluzione? Non lo sono più che lo siano a scatenare la lotta di classe. La rivoluzione nasce dal concorso di condizioni oggettive e soggettive senza le quali mai non sarebbe: cioè, nel primo caso, dai dati della situazione economica e politica generale, dal grado di maturità del capitalismo, dal grado di stabilità dello Stato borghese; nel secondo, dal largo e progrediente possesso dal parte del partito comunista di una sicura influenza sulla massa del proletariato, aggiunto al divenire, determinantesi al di sopra della volontà nostra, delle condizioni oggettive favorevoli - condizioni che, fra l'altro noi da anni proclamiamo tutt'altro che prossime a realizzarsi, non perché così piaccia a noi (è chiaro che preferiremmo l'opposto) ma perché sappiamo in quale abisso di smarrimento abbia gettato la classe proletaria un quarantennio di controrivoluzione stalinista accoppiato a un settantennio di riformismo, e che vietano a noi  più che a chiunque, anche a prescindere dal nostro rifiuto di principio del colpo di mano audace di singoli o di minoranze audaci fuori da precise condizioni di fatto, di chiamare i proletari ad... imbracciare in qualunque circostanza il fucile, e ci impone invece il duro compito di ricostruire il partito di classe, la sua dottrina, il suo armamento tattico oltre che strategico, la sua rete organizzativa. Un giorno, il partito sarà chiamato non a «fare» la rivoluzione, ma a dirigerla.

Saremmo noi gli ultimi a contestare la classe dominante il «diritto storico», se ne ha la forza, di proclamare che condividere  e quindi predicare la dottrina marxista è un'infamia e un delitto, di condannare quindi a pubblici falò l'immensa letteratura circolante nelle mani di milioni e milioni di proletari in cui questo ABC è ripetuto a ogni riga, di dichiarare fuori legge i partiti che tanto propugnano. Abbia allora la stessa franchezza che abbiamo noi di non nasconderlo: getti la maschera, e ci metta al bando. Se non lo fa, e finora non l'ha fatto, non pretenda di lasciarci vivere vietandoci nello stesso tempo d'essere quelli che siamo,  di ripetere quello che da 120 anni diciamo senza veli, di comportarci come non possiamo non comportarci. In nessun caso, del resto, la storia non girerà all'indietro la sua inesorabile ruota.

 

il programma comunista, n. 1, 10 gennaio 1970