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archivio > Articoli su Bordiga>Giampiero Mughini, Terracini parla di Bordiga (L'Astrolabio, 2 agosto 1970)

aggiornato al: 21/03/2008

L'Astrolabio, 2 agosto 1970

Giampiero Mughini in gioventù aveva dato vita a una bella e simpatica rivista, "Giovane Critica", faceva il "gauchiste" e ... cavalcava gli anni sessanta.

Forse anche allora era un acceso tifoso della Juventus, ma certamente  non faceva, come oggi,  il commentatore sportivo a "Controcampo" la trasmissione televisiva in onda, durante il campionato di calcio, la domenica pomeriggio.

L'articolo che oggi pubblichiamo, apparso in una nota rivista di quegli anni "L'astrolabio", è interessante. Scritto poco dopo la morte di Bordiga, fu il frutto di un colloquio con Umberto Terracini.

Verso la fine dell'articolo l'autore scrive che Bordiga «resta lontano dai nostri giorni e dai nostri problemi» mentre è «Mao, lui sì tanto vicino»; ci piacerebbe chiedere a Mughini se la pensa oggi ancora allo stesso modo.

 

Terracini parla di Bordiga

Quel «gauchiste» di 50 anni fa

 

Amadeo Bordiga merita oggi certamente attenzione politica. Non però quella retorica e di comodo riservata ai «vinti». Dinanzi a siffatti protagonisti, comunque, non c'è da chiedersi che cosa di essi resiste al nostro confronto, ma che cosa di noi resiste di fronte a loro.

 

Ignazio Silone, il quale per un lungo tempo della sua vita si chiamò Secondino Tranquilli, racconta in quella che è forse la più bella fra le testimonianze raccolte nel volume Il Dio che ha tradito, come durante una seduta cui partecipavano alcuni fra i massimi dirigenti dei Partiti Comunisti della III Internazionale, Trotckij finisse un suo intervento usando un'espressione italiana aggiungendo, rivolto a Bordiga, "per parlare nella lingua di Dante e di Bordiga". Era un omaggio dell'organizzatore dell'Armata Rossa, certo non usueto in bocca sua, a una delle figure che nell'Internazionale del tempo irradiava maggior prestigio.

Amadeo Bordiga è morto. Il compagno Amadeo Bordiga. Perchè lui, a differenza di altri "esuli risentiti", non venne mai a patti con l'avversario, non ammiccò a un qualche Petain. Sapeva troppo della lotta politica e delle sue leggi per credere che un "dio" avesse tradito, finendo magari con il lasciarsi abbindolare dai "diavoli" partoriti dalla dinamica della società capitalistica. Se c'erano delle ragioni alla sua sconfitta, sconfitta con la quale ha convissuto in ostinata e stoica solitudine per 45 anni, esse andavano ricercate, coerentemente con la sua metodologia generale, nell' "economia" e nel gioco delle classi.

"Da tempo infinito lontano da lui, eppure lo sentivo più vicino di molti che accosto ogni giorno", così ci dice Umberto Terracini, iscrittosi al PSI nel 1911, membro della direzione del PSI nel 1920, nell' Ordine Nuovo con Gramsci e Togliatti, nel PCI con Gramsci e Bordiga, "quale massimo organizzatore del partito" condannato dal Tribunale speciale fascista a ventidue anni nove mesi e cinque giorni di reclusione (largamente scontati), oggi senatore comunista. Un uomo cioè che appartiene a uno scorcio di storia  del movimento operaio organizzato tale da indurre - quale che sia il giudizio di merito su certi esiti e sviluppi - a chiedersi, secondo quanto Adorno diceva di Hegel, non che cosa resiste di lui davanti a noi, bensì che cosa resiste di noi davanti a lui (la frase di Adorno è citata da Cesare Cases, significativamente, in un suo articolo su Gramsci).

Amadeo Bordiga era stato "espulso" dal PCI sul finire degli anni trenta E' stata una delle espulsioni tipiche di quel tempo, dice Terracini, quando con esse non si intendeva "ratificare" una situazione "reale" ma piuttosto "crearla". Quando gli chiedo le ragioni del fascino di Bordiga, del suo prestigio anche internazionale, Terracini risponde che Bordiga sotto una scorza "autoritaria" rivelava una "comunicatività straordinaria, una "bontà incommensurabile". Rispetto ad altri "estremisti" combattuti da Lenin, i quali, a dire di Terracini, furono spesso delle "meteore", Amadeo Bordiga spiccava per la sua "serietà", per la sua "singolarità".

Resta però il fatto che, secondo Terracini, una "grave lacuna" inficiava alla base l'attività dell' "uomo politico" Bordiga, attività pur immane (ce ne vogliono tre per fare il lavoro di un Bordiga, diceva Gramsci). Tale lacuna era "l'astrattezza", il partire non dalla realtà, in tutta la sua originale concretezza e ricchezza di mediazioni interne, ma dai "principi". Bordiga credeva che i "fatti" non avrebbero potuto non incontrarsi con alcune linee di sviluppo concettuale. La sua stessa concezione del "Partito", che poi era la sua forza (tant'è vero,aggiungiamo noi, che da essa sono partiti alcuni riesumatori odierni del suo "pensiero"), risentiva di questo limite di partenza. Amadeo Bordiga, dice Terracini, era innanzitutto "uomo di partito". Più che i problemi della società egli viveva i problemi del "Partito", della coerenza strutturale e "ideologica" di un nucleo di rivoluzionari (sperimentati però, si badi bene, sul terreno concreto della lotta e dell'iniziativa di classe). Egli era, continua Terracini, molto più "uomo di partito" di Gramsci. A Livorno Bordiga arriva forte di una prolungata e ben caratterizzata lotta politica all'interno del PSI napoletano e nazionale; laddove Gramsci si era limitato al lavoro politico che comportava una sezione torinese del PSI. Proprio per questo il nucleo bordighiano (la frazione "astensionista"), dice Terracini, costituirà lo "scheletro portante" del PCI appena nato; del quale il gruppo ordinovista sarà piuttosto il "tessuto nervoso" ma - ed è questa una "confessione" particolarmente interessante - senza che per i primi due anni di vita del partito sia davvero "stimolato" ad esserlo. Perchè il Gramsci dell' Ordine Nuovo pensava, agli antipodi com'era di Bordiga, alla "società" prima che al "Partito", ai movimenti di massa prima che alle cristallizzazioni organizzative, intese queste ultime piuttosto come "prodotto della storia" (l'espressione è di Mao Tze-Toung) anziché come suo fattore costitutivo e propulsivo: quest'ultima difatti è l'accezione leninista, o presunta tale, prevalente nel contesto terzinternazionalista nel quale operano Gramsci e Bordiga.

Ancora dopo il II Congresso del Partito, quello di Como, Bordiga ha saldamente in mano l'intelaiatura del partito. La segreteria che ne scaturisce vanta quattro bordighiani su cinque: Grieco (che poi si convertirà alla linea gramsciana), Repossi, Fortichiari, Bordiga. Il quinto è Umberto Terracini; stando alla sua stessa autodefinizione, il più "uomo di partito" dei torinesi dell' Ordine Nuovo (qualcuno ha parlato di una persistente influenza di Bordiga su Terracini). La successiva pesante sconfitta bordighiana a Lione non avviene nell'ambito di una dialettica puramente interna all' "istituzione", bensì, per usare l'espressione di Terracini, su  "un terreno puramente lavorato". Terracini si riferisce al "periodo matteottiano", l'Aventino, che costituisce il "grande campo sperimentale della strategia gramsciana". Bordiga si oppone all'abbandono del Parlamento (ciò che gli sembrava un valorizzarlo) e si oppone poi a ritornarvi, o comunque non dà peso alcuno all'iniziativa di Gramsci e alla strategia che la sottende. Ad Amendola il quale dice a Gramsci, voi volete tornare in Parlamento e parlare al popolo coerentemente con il vostro assunto fondamentale che è quello di fare la rivoluzione, assunto che non è il nostro, Gramsci e i suoi replicano ritornando in aula (a costo di un grave rischio anche personale). Bordiga segue distrattamente quella vicenda. Oltretutto, commenta Terracini, lui riteneva in un certo senso "ineluttabile" il fascismo, da lui interpretato come uno stadio capitalistico più avanzato di quello "liberale" (cosa che,in sé, aggiungiamo noi, alcuni studi recenti tendono a convalidare). Marcisse dunque per intima putrefazione, ché la rivoluzione socialista ne sarebbe conseguita ipso facto. Bordiga non ha mai scritto queste cose, dice Terracini, ma tale era al fondo la sua ipotesi. Poco si curava perciò della flessibilità (sia pur relativa) di certi strumenti (come lo stesso Parlamento, in una situazione data); né aveva preoccupazioni tattiche, come se la tattica fosse altra cosa dalla strategia e non ne creasse invece le condizioni preliminari, le occasioni e le possibilità concrete. In questo, secondo Terracini, malgrado il perdurante richiamo formale a Lenin, Bordiga non fu mai "leninista", non afferrò tutta la complessa lezione politica del rivoluzionario russo. Se Bordiga non avesse subita la sconfitta del '26, dice Terracini, il PCI non sarebbe stato dissimile dal "Partito" di cui Bordiga costituirà il massimo punto di riferimento nel dopoguerra: un migliaio di iscritti, soprattutto all'estero, che si riuniscono una volta all'anno in "assemblea" e depositano le loro "testimonianze" in un volume: "materiali" fra i tanti, tronchi fra i tanti nel fiume della storia.

Tutto sommato, Terracini trova che Bordiga mancava di autentica "passionalità politica". Altrimenti, egli dice, non avrebbe potuto restare così a lungo e così pervicacemente fuori dalla mischia, fuori dalla concreta fenomenologia della lotta di classe, come se tutto quanto è nel "reale" fosse poca e inessenziale cosa rispetto all'unilineare coerenza del "razionale", e sia pure di quella forma altissima del "razionale" che è l'ideologia rivoluzionaria, il patrimonio ideale e politico del movimento operaio in lotta.

A una mia esplicita domanda, e cioè se Bordiga avesse intravisto prima degli altri i pericoli impliciti in un rapporto troppo stretto e vincolante con il gruppo dirigente bolscevico postleninista e con l'orientamento strategico che da esso promanava, Terracini dice di no. Bordiga aveva creduto anzi, omologamente alla sua concezione del "Partito", alla necessità di una "Internazionale di ferro". No, conclude Terracini: Amadeo aveva troppi "meriti" perchè gli si debba concedere anche questo.

"Merito" invece che, oggi sappiamo, ebbe Gramsci, sia pure in modo tormentato e politicamente contraddittorio. Anche in questo, "capo" più ricco e più duttile di Bordiga, più onnicomprensivo. Contrariamente a quanto ne scrissero i seguaci di Bordiga su Prometeo commemorandone il martirio "proletario". Gli stessi che a Gramsci, con "materialismo" un po' greve, rimproveravano la sua origine intellettuale e persino le sue "condizioni fisiche", contrapponendogli Bordiga il quale "fu il capo del proletariato italiano del dopo guerra unicamente perchè seppe, per primo, affermare la necessità del partito di classe per condurre il proletariato alla vittoria".

La testimonianza di Terracini mostra quanto cammino abbia compiuto il Pci, per quanto concerne la ricostruzione della sua "storia", dal tempo in cui l'edizione delle Lettere dal carcere di Gramsci venne amputata dei passi che contenevano giudizi benevoli su Bordiga. Persino il favorevole giudizio di Bordiga su Gramsci giocatore di scopone venne cassato, evidentemente perchè ritenuto compromettente. E ancora nel 1951 Giuseppe Berti scriveva di supporre che "Bordiga fosse, in tutto o in parte al servizio delle classi dominanti anche nel periodo in cui il bordighismo si presentava ancora come una corrente opportunista del movimento operaio" (citato da Salvatore Sechi in Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di Gramsci, Quaderni Piacentini n. 29, 1967). Il Pci ha poi notevolmente innovato l'ottica dell'interpretazione storiografica generale. Innanzitutto con il famoso saggio di Palmiro Togliatti La fondazione del gruppo dirigente del partito comunista. "Si trattò di una piccola rivoluzione storiografica", ha scritto recentemente Massimo Salvadori. E poi con i due volumi di Paolo Spriano; cui è da aggiungere il contributo di Giuseppe Berti, oggi addirittura incline a rivalutare la "linea" di Tasca.

Siccome i vivi cercano sempre di assicurarsi il "voto" del passato, era prevedibile che nel contesto degli anni '65-'68 quando più grave sembrò la crisi "storica" e politica dell'intera costruzione gramsciana e quando più dure e radicali erano le critiche indirizzate da sinistra al "gruppo dirigente del PCI", quale uscì vittorioso dalla lotta con Bordiga, quest'ultimo non poteva non attirare l'attenzione di alcuni studiosi, sollecitati da un impegno politico nel presente. In quel momento apparvero, e suscitarono una certa eco, alcune rivalutazioni di Bordiga. Se ne fece promotrice la Rivista storica del socialismo, specie nel momento in cui la gestione Cortesi prevalse sulla linea Merli. Si pensi ai due famosi e lettissimi saggi rispettivamente di Luigi Cortesi, Alcuni problemi della storia del PCI. Per una discussione. e di Andreina De Clementi, La politica del Partito Comunista d'Italia nel 1921-22 e il rapporto Bordiga-Gramsci. Andreina De Clementi è ritornata recentemente, seppur di sbieco sull'argomento: sempre sulla Rivista storica del socialismo, Il movimento operaio tra "ricordi" e ideologia. A proposito di due libri recenti sui primi anni di storia del PCI. Ultimamente la stessa studiosa ha consegnato all'editore Einaudi 200 cartelle, che fungeranno da "prefazione" a un'antologia di scritti di Bordiga. Anche se sulla portata politica complessiva dell'operazione "neobordighiana" tentata da Cortesi e dai suoi collaboratori noi condividiamo le critiche che in più occasioni espresse Stefano Merli.

Fatto è che Bordiga non è mai apparso sui "cartelli" degli studenti. Addirittura alcuni fra i "gruppi" più maturi hanno preso eguali distanze dallo "spontaneismo" e dal "bordighismo" associando quest'ultimo, seppur alla lontana, con la concezione del "Partito" che sottostava alla costruzione di alcuni partitini "marxisti-leninisti". Per non dire poi di certi seguaci di Bordiga, i quali davvero pochino hanno fatto per rendere attuale il pensiero del maestro. Basti pensare a un numero speciale della rivista filobordighiana francese Le fil du temps consacrato a un'analisi dei "fatti" di maggio. Vi si rieditavano documenti pubblicati alcuni lustri prima, annunziando contemporaneamente - perchè così voleva il "ciclo economico" - la rivoluzione mondiale per il 1975. Dirlo così chiaro e tondo, aggiungevano cautelativamente i redattori della rivista, potrebbe mettere sul chi vive l'avversario di classe: ebbene no, concludevano, perchè tanto non ci prende sul serio.

Paragonare un gigante come Bordiga a dei pigmei suona blasfemo. Perchè Bordiga è stato un gigante, e in tempi "di ferro e di fuoco" (un'espressione prediletta del giovane Marx). Ma resta lontano dai giorni nostri e dai nostri problemi. Per dirla con Mao, lui sì tanto vicino, Bordiga coglie raramente i "due elementi" che sono impliciti in ogni "particolare momento" della storia e della lotta politica. Nel rivoluzionario napoletano l' "elemento" dottrinario prevale sempre sull' "elemento" del reale accidentato e multiforme. Per lui, tipicamente, la stessa storia della Russia postleninista si riduceva a una "restaurazione del capitalismo", il che era uno sfuggire ai problemi reali, politici e teorici, che l'involuzione del processo rivoluzionario in Russia drammaticamente poneva. Come tutti i momenti "classici" del passato, e di quale passato, egli merita studio e attenzione politica: non però quella retorica e di comodo che si presta usualmente ai "vinti": perchè non sempre  i "vinti" avevano ragione.

 

Giampiero Mughini

 

L'Astroloabio, 2 agosto 1970