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archivio > Articoli su Bordiga>Diego Gabutti, Bordiga un comunista a sé (Il Giorno, 15 giugno 1996)

aggiornato al: 08/04/2008

Il Giorno, 15 giugno 1996

Di Diego Gabutti abbiamo già ospitato altri scritti nel nostro sito; suo è anche un romanzo "fantasmagorico" diremo, secondo il suo stile, che ha come protagonista Amadeo Bordiga (Un'avventura di Amadeo Bordiga, Longanesi, 1982).

Questo articolo, simpatico e spiritoso, servì come presentazione del Convegno di Bologna del giugno 1996 dedicato ad Amadeo Bordiga.

Prima dell'articolo una nota precisava i relatori e i temi del Convegno.  Anch'essa è frutto della penna  di Gabutti e la riproduciamo.

 

 

La «due giorni» per ricordarlo

 

Sotto l'ala del Nucleo Informale Potlatch, con la partecipazione straordinaria del Dipartimento di Filosofia e Politica dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, parte stamane a Bologna alla Sala polivalente di via dello Scalo 21, una due giorni di relazioni e dibattiti sulla figura d'Amadeo Bordiga, fondatore del Partito comunista in Italia, marxista eccellente, scrittore e personaggio irripetibile. Parlano oggi, dalle ore 14.00 in avanti, Michele Fatica su «Alcuni concetti chiave elaborati durante la prima militanza», Luigi Cortesi su «Bordiga nella storia del comunismo», Luigi Gerosa sul tema «Dal congresso di Livorno alla marcia su Roma», Antonio Ca' Zorzi sugli «avvenimenti del 1923-26», Arturo Peregalli sulla «Posizione di Bordiga dal 1926 al 1945», mentre Sandro Saggioro, curatore con Peregalli del libro «Amadeo Bordiga (1889-1970) Una bibliografia», presenterà il volume ai convenuti.

Si riparte domani, alle 9,30 quando Liliana Grilli relazionerà circa l'oltrepassamento del «Mito URSS» e Giorgio Galli parlerà sul tema «Classe e rappresentanza politica: URSS e Occidente». Nel pomeriggio, di nuovo dalle 14.00 in poi, sarà la volta di Jacques Camatte con «Comunità, specie, natura», poi Nicola Di Matteo con «La lettura bordighiana del Capitale», di Diego Gabutti e Paolo Pianarosa con «Una merenda del cappellaio matto», di Alberto Giansanti con «Bordiga e i processi staliniani» e, infine, di Domenico Ferla con una relazione intitolata «Divagazioni su alcune tematiche bordighiane». Bordiga, dall'alto, tutti li assista.

 

 

Bordiga, un comunista a sé

Uomo senza maestri né capi

Ideologo fuori da ogni schema, non voleva parlare di rivoluzione: farla o niente

 

Quando gli oppositori, nei partiti dell'Internazionale comunista, venivano espulsi come trotzkisti o zinovievisti o buchariniani, Amadeo Bordiga venne cacciato come bordighista, per dire il personaggio e la sua statura. Di lui oggi si parla poco, e se non fosse per il convegno che s'apre oggi a Bologna e per rari libri a sua firma che ogni tanto appaiono presso editori oscuri, non se ne parlerebbe affatto, ora che persino il comunismo ortodosso, figurarsi quello fuori ordinanza, è definitivamente tramontato. Ma fatto sta che lui c'era quando il mondo bruciava nel fuoco della rivoluzione comunista.

Ora c'è chi lo liquida, da un lato, quale sinistro operatore della scissione di Livorno, che spaccando a metà la mela socialista avrebbe aperto la strada al fascismo e consegnato il proletariato italiano in mani sovietiche, e c'è chi lo mitizza invece come oppositore di Stalin ante litteram. Ma Bordiga era un comunista a sé. Incasellarlo è dura.

Nato a Resina, presso Napoli, nel giugno 1889, Bordiga aveva 18 anni quando lesse per la prima volta «Il manifesto del partito comunista». A ventun anni, già quasi ingegnere, s'iscrisse alla sezione napoletana del Psi. Fin da subito giurò inimicizia eterna ai riformisti e si segnalò per classismo intransigente. Erano gli anni in cui Mussolini dirigeva «L'Avanti!» da posizioni estreme e attirava a sé le tendenze rivoluzionarie, compresa quella animata da Bordiga, che a Napoli aveva fondato il Circolo Carlo Marx, ma Amadeo non per questo diventò mussoliniano ché era bordighista fino da allora. Esclusi Marx e Lenin per i quali avrebbe messo sul fuoco la mano dell'intera umanità, Bordiga non ebbe maestri né «capi» o «cazzacci» da rispettare  e così, allo scoppio della prima guerra mondiale, quando interrogarsi sul voltafaccia di Mussolini era sport popolare tra i socialisti italiani, lui già guardava da un'altra parte e lontano, oltre la caduta dell'Internazionale socialista travolta dalla guerra, alla grande rivoluzione che si preparava. Occhiali a pince-nez, «testa possente e bovina», chiacchiera «sfottente e spiritosa», Bordiga salutò nel 1917 il colpo di mano leninista a San Pietroburgo come l'inizio della festa e, appena congedato dall'esercito, ribattezzò il suo gruppo frazione comunista astensionista del Psi. In alleanza col gruppo torinese d'Antonio Gramsci, potente tra i lavoratori delle grandi fabbriche, nel giro di pochi anni Bordiga riuscì a fondare il Partito comunista italiano, di cui venne subito eletto segretario.

Ma proprio perchè non era un cazzaccio e gli piaceva pensare in proprio la sua direzione durò poco. Arrestato nel 1923 all'uscita da un «recapito clandestino», prima gli toccò la beffa di vedersi presentato agli elettori come capolista del partito, onore che declinò all'istante: «Non sarò mai deputato e, più presto farete i conti senza di me, meno fatica e tempo perderete». Ma dopo la beffa il danno: alla testa del comitato centrale italiano, già nel 1924, l'Internazionale di Mosca designò i gramsciani, compreso un certo Togliatti, che per Bordiga fu da allora in poi sempre «Palmiraccio», certo per via della rima con «cazzaccio».

Dei russi che lo giubilarono, ricordò più tardi Giuseppe Berti, Bordiga diffidava dal 1920.

Cominciò a delinearsi la leggenda. Bordiga, fuori da tutti i giochi, cercò scampo in un'idea di partito che soltanto Marx, prima di lui, aveva osato coltivare. Un partito comunista verace, parlò Bordiga, vive un sol giorno come le rose. Esso non prepara la rivoluzione, di cui è l'anima, ma l'attende e la sospira, disse Bordiga, e subito l'accusarono di voler creare una setta, senza capire che lui pensava ai partiti comunisti come a Tavole Rotonde di cavalieri smacchiatissimi e risorgenti dalle loro tombe segrete solo quando la congiuntura storica, rara e preziosa, li richiamava alla vita.

Accettò d'entrare nella segreteria dell'Internazionale perchè Zinoviev «lo pregò con le lacrime agli occhi». Ma di rivoluzione, dopo il 1923, per lui non era neanche più il caso di parlare. Senza chiasso, in punta di piedi, Bordiga aveva fondato, dopo Livorno, un nuovo partito, il partito storico del proletariato, abitato soltanto da lui e da pochi fedeli, col compito d'aspettare tempi migliori, che però non sarebbero arrivati mai. Ma lui attendeva lo stesso, determinista e paziente soprattutto cocciuto come un mulo.

Parlò un'ultima volta a Mosca nel 1926 durante il VI esecutivo allargato dell'Internazionale. Edward H. Carr, il grande storico della rivoluzione russa, afferma che il discorso di Bordiga apparve e appare come il documento più significativo dell'opposizione al Termidoro russo. Bordiga inveì contro la bolscevizzazione dei partiti e contro la teoria nefasta del socialismo in un paese solo. Denunciò l'Inquisizione rossa aizzata dalla centrale moscovita contro i liberi e i giusti.

Persino il futuro padre dei popoli, Giuseppone Stalin, parlò di lui con rispetto e, meglio, volle incontrarlo  per rendergli personalmente conto del pasticcio sovietico. Bordiga, che la sera prima era stato a cena da Trotsky, non gli fece sconti e il povero Stalin uscì dal colloquio mormorando: «Mai avrei creduto che un comunista potesse parlarmi così. Dio vi perdoni per averlo fatto». Ma continuò a rispettarlo in assemblea, dove soltanto Palmiraccio, per la verità, s'alzò a contestare il suo ex-segretario e, per guadagnarsi poco onestamente il pane, disse di non credere che Bordiga fosse mai stato «un grande capo rivoluzionario», per quanto ne avesse l'aria e ponesse «i problemi in modo sincero». Voleva dire, e fu ben detto, che il nostro non era un cazzaccio.

Tornò a Napoli Bordiga. Fece un po' di confino, poi si ritirò a vita privata e nel 1930, quando rifiutò d'espatriare per raggiungere la direzione del partito a Mosca o a Parigi, venne espulso, senza chiasso. Anche Trotsky, un anno o due più tardi, gli propose di espatriare e d'unirsi a lui nell'esilio degli antistalinisti duri e puri, ma Bordiga rispose picche anche a questa sirena. Non voleva parlare di rivoluzione. Farla o niente.

Rimase in Italia e la polizia fascista che continuò a spiarlo fino all'ultimo, lo lasciò vivere pur giudicandolo sempre un «soggetto pericoloso». Riemerse dal letargo mussoliniano, di qua la Resistenza e di là gli americani in Italia, come trasfigurato dal genio della satira e dell'idiosincrasia. Così un agente dell'OSS lo descrisse in un rapporto: «E' ancora una dinamo umana e un gigante del pensiero». Ma Bordiga era persino più dinamico di prima.

Scriveva pagine epiche e visionarie all'altezza di quelle di Carlo Emilio Gadda per invenzione linguistica e sollazzo. Suoi vecchi discepoli, intanto, fondavano il pc internazionalista, al quale lui non s'iscrisse mai ma di cui sarebbe rimasto fino in fondo l'ispiratore facendo del suo misero bollettino, «il programma comunista», un giornale leggendario in virtù dei suoi articoli, brillantissimi e ringhiosi. Non che li firmasse, però. Sosteneva che il marxismo è scuola anonima e impersonale, e che la proprietà privata intellettuale è la più infame tra tutte. Era in attesa del 1975. Per quell'anno, con calcoli da cabbalista, aveva fissato la data della crisi finale del capitalismo.

Non si beveva, imbizzarrimento ulteriore, quello che chiamò «l'imbroglio lunare». Con articoli bislacchi, fitti di calcoli da ingegnere d'un altro mondo, «dimostrò» che mai l'uomo avrebbe potuto lordare con le sue scarpe la luna e i pianeti e così «impestare», dopo la «crosta terricola», anche lo «spazio cosmico», ancora vergine e puro. Abitava a Formia, una casa con vista panoramica e terrazzo, sul quale la moglie allevava «galline starnazzanti in putride stie». Armato d'un binocolo osservava il movimento delle navi nel porto. E lì morì nel luglio del 1970.

Gli astronauti maledetti erano allunati senza tener conto dei suoi precetti. Poi venne, e passò a vuoto, senza nemmeno un accenno di crisi, il 1975 fatale. Berlinguer rivelò d'essere stato «bordighista» lui pure in giovinezza. O Bordiga! O umanità!

 

Diego Gabutti

 

Il Giorno, 15 giugno 1996