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archivio > Articoli su Bordiga>Massimo Caprara, I migliori di Bordiga (Il Giornale nuovo, 23 febbraio 1988)

aggiornato al: 26/06/2008

Il Giornale Nuovo, 23 febbraio 1988

Solo una necessaria correzione a quanto è riportato in questo articolo di Massimo Caprara. Non è vero, come è invece detto verso la fine dell'articolo, che Alma, la figlia di  Bordiga, non si sposò anche se questo cambia poco alla tesi sostenuta. Alma Bordiga si sposò nel 1946 (e quindi, a quella data, non si praticavano più gli onori fascisti ai matrimoni) con un primario ospedaliero napoletano, Ludovico Puntoni, da cui ebbe quattro figli.

A parte questo quanto scrive l'ex segretario di Togliatti sembra veritiero.  

 

 

I migliori di Bordiga

 

Bukharin, irritato, s'alzò di scatto e raggiunse la tribuna. I delegati al IV Congresso dell'Internazionale Comunista, riuniti a Mosca nell'ottobre del 1922, tacquero impensieriti. Il «caso italiano», ossia la vittoria del fascismo, impensieriva l'assemblea.

«Le vostre sono obbiezioni inconsistenti, motivate da settarismo inconcludente, alimentate da boria intellettuale», recitò Bukharin con violenza, sibilando in francese. Trotskij e Radek, membri anch'essi del presidium del Komintern, in quanto rappresentanti dell'egemone partito pan-russo, rincararono l'accusa: «Infantilismo, velleitarismo, radicalismo piccolo borghese, paura settaria del contatto con la vita reale, ecco le ragioni della vostra sconfitta». Kolarov, bulgaro, Humbert-Droz, svizzero, Rakosi, ungherese, uomini legati al gruppo dirigente sovietico allora unito attorno a Stalin, Trotskij e Zinoviev, (Lenin era ancora vivente ma debilitato dalla malattia che lo immobilizzerà pochi mesi dopo, da marzo), intervennero con martellante ostinazione, con una suranchère  predeterminata.

Bukharin puntò il dito sul reo di tanto obbrobrio, riprendendo la parola: «Il compagno Bordiga fantastica sull'ignoto e intanto se ne sta con le braccia conserte». Bordiga, che era il più noto e popolare fra i capi del Partito Comunista d'Italia, nato a Livorno nel gennaio dello stesso anno [dell'anno prima, in realtà], si limitò a replicare con disprezzo: «La vostra analisi è sommaria; i vostri informatori superficiali. La verità è che voi ci chiedete di rinunziare alla nostra autonomia di giudizio e d'azione. Di fatto, volete ripiombare il proletariato italiano nella morta gora del centrismo massimalista vile e bagolone, che in questo momento vi blandisce per timor panico di Mussolini».

L'Esecutivo allargato dell'Internazionale votò una risoluzione d'aperta condanna del partito italiano. Lo accusò d'aver assistito impotente al colpo di Stato fascista tramato all'ombra dei Savoia, d'aver ceduto alle squadre fasciste,d'aver portato al disastro l'intero movimento operaio italiano per una colpa precisa: il sinistrismo anti unitario predicato da Bordiga. E materializzò il dissenso e la sfiducia con una misura d'imperio: la sostituzione dall'alto e dall'esterno di tutto il gruppo dirigente italiano, dopo averlo nuovamente coperto d'insulti.

Gramsci tacque, Togliatti si schierò con la maggioranza e accettò, dopo qualche esitazione, l'offerta di rimanere a Mosca. Bordiga, del tutto isolato, attaccò con sarcasmo soprattutto Zinoviev che era il più facondo: «Tu Gregorio, un ballista...». Poi scrisse e presentò una controrisoluzione severa: «Il vostro è un atto d'autorità. Un precedente rischioso. Per noi. Ma anche per voi». Una profezia dolorosa e antiveggente, ancora oggi significativa.

Fu lo stesso protagonista  dell'inquietante episodio a riparlarmene a Napoli, quarant'anni dopo. «Sono Bordiga» , mi disse avvicinandomi nell'antisala dei Baroni, al Maschio Angioino. «Si, Amadeo», volle precisare. In effetti, io lo avevo fissato nel corso di tutta la manifestazione perchè m'avevano anticipato che quel volto tondo e irsuto, quella figura tozza e pletorica era la sua: dell'Esecrando Traditore.

Dopo il congresso di Lione che, nel gennaio del '26, consacrò Gramsci segretario del partito, Bordiga era stato espulso con ignominia. Inutilmente, i delegati appartenenti alla sua frazione d'estrema sinistra lo avevano votato per il Comitato centrale. In precedenza, nel corso del dibattito sulle prospettive in Europa, Bordiga aveva nuovamente attaccato il Komintern, la cui maggioranza chiedeva agli italiani di  riunificarsi urgentemente con l'ala massimalista del partito socialista. «Ci date consigli opportunisti, siete una centrale neo-hegeliana e crociana, anzi una vera e propria scuola napoletana di filosofia», aveva tuonato mescolando ira e quello scherno inflessibile, permeato di localismo che praticò per tutta la vita.

Più o meno nello stesso periodo avevano subito la stessa sorte dirigenti come Tasca e, da altre posizioni, Leonetti, Ravazzoli e Tresso, i cosiddetti «tre dell'opposizione trotskista». Intanto , il tribunale speciale fascista aveva iniziato la sua opera, condannando Bordiga, uno dei primi fra i quattromilatrenta iscritti del disciolto partito comunista: nel complesso, ventimila anni di carcere.

Uscitone, Bordiga aveva ripreso a Napoli, nei cui dintorni era nato ed assieme alla moglie Ortensia aveva tessuto contatti fra i metallurgici di Castellamare e i ferrovieri di Portici, la sua professione di ingegnere edile. Schivo ed apprezzato costruttore d'opere private basate su avanguardistici calcoli di cemento armato, era stato nominato presidente del Consiglio dell'associazione degli ingegneri e architetti. In quanto tale, partecipava alle iniziative che, attorno al 1960, l'opposizione antimonarchica andava organizzando contro il sacco urbanistico della città. Nel '62 la giunta democristiana e socialista, guidata dal sindaco Palmieri, lo aveva nominato, personaggio comunque al di sopra d'ogni sospetto, nella commissione di studio per il nuovo piano regolatore che avrebbe dovuto cancellare gli eccessi del comandante Lauro, sindaco per un decennio, trionfalmente eletto e riconfermato. Il compito era di bloccare l'espansione a macchia d'olio della città, alleggerendo la congestione dei quartieri spagnoli sopra via Toledo, ridisegnando una mappa nella quale insediamenti e infrastrutture pubbliche per baraccati e senza tetto trovassero spazio nelle zone di decentramento da Soccavo a Secondigliano, Pianura, Cappella dei Cangiani.

Durante i lavori, Bordiga si scontrava sovente con altri due membri della commissione, Cosenza, comunista, e Piccinato, socialista, i quali, pur apprezzando le sue qualità tecniche e la sua lucidità culturale, respingevano la concezione rigidamente classista secondo la quale decentrare le abitazioni operaie equivaleva ad una «punizione sociale».

«La vostra concezione è rozzamente populista», esordì Bordiga riferendosi ai suoi interlocutori nella commissione ed a me che, come capolista del PCI, diressi l'incontro al Maschio Angioino. «Senza riformare la concezione della città borghese, riuscirete a fare tutt'al più dei falansteri, dormitori inospitali e segreganti», egli commentò con sarcasmo appena attenuato dalla volontà di non urtare al primo incontro, di non ferire a freddo, lui che, nella sua vita ormai declinante, ben altri avversari aveva incontrato su ben altri argomenti di portata epocale.

A questo pensai, accompagnandomi con lui, fuori dalla porta trionfale dei Laurana verso Piazza Municipio. La conversazione fu solo pragmatica, ma io avvertii nelle sue frasi controllate, indifferenti, falsamente distaccate, la pressione di volersi confrontare non con me ma con chi, Togliatti, io avevo avuto e avevo occasione di frequentare quotidianamente e lui di aborrire intensamente.

Di lui, direttamente, non mi chiese. Né come fosse diventato, né cosa dicesse. Gli sentii soltanto esprimere sfiducia, quasi ripugnanza sulla linea del partito, il nostro, quello comunista. Alla fine esplose da vecchio cospiratore «entrista», come usavano definirsi gli oppositori trotzkisti che avevano deciso di restare dentro il partito per farvi opera di divisione e di propaganda alternativa. «I vostri quadri migliori sono nelle mie mani. Sono io che li dirigo», si vantò sciorinandomi un elenco di iscritti ai quali tutte le sere egli faceva lezione di tattica e strategia insurrezionale. Erano Giorgio Quadro, capo della commissione interna delle officine Miani e Silvestri; Gennaro Rippa, delle officine ferroviarie meridionali; Franco Panico della Precisa, fabbrica di meccanica fine; Salvatore Castaldi, tipografo che correggeva dalla linotype i pezzi dei collaboratori del Mattino; Guglielmo Peirce, raffinato scrittore d'ascendenza inglese, Ugo Arcuno, professore al liceo Genovesi come la sorella, animatrice di proteste studentesche prima e dopo del '68; Salvo Mastellone, letterato e poeta assai squisito. In quel momento trovai in lui, con rispetto, la caparbia ostinazione di chi non accetta sconfitte, non le incassa e se ne duole amaramente anche a distanza d'anni; che non attenua e neppure sfuma la propria intransigenza ma la cova ed alimenta con intelligente, privato fervore.

Dei quali si limitò a dire che li disprezzava. «Non per quello che di politico hanno fatto e stanno facendo», spiegò, «ma per il malcostume irrimediabile che hanno introdotto nei nostri rapporti». Per proseguire, mi diede un appuntamento per l'indomani. Vi andai con qualche emozione, poichè era pur sempre un incontro che Roma non avrebbe approvato. Lo incontrai da Caflisch a Piazza Dante.

Portò una borsa di pelle dalla quale trasse con cautela una foto non sgualcita, conservata con cura, che io avevo già visto circolare fra i militanti più fidati. La riguardai: una coppia di freschi sposi  (lei in abito bianco di tulle e lui in marsina) passa, nella foto, sotto una guardia d'onore formata dai pugnali sguainati dei Moschettieri del Duce in divisa nera con borchie dorate e teschi sulle mostrine. Negli anni '30 era un onore riservato solo ai fedelissimi del fascismo. «Questa è mia figlia. Non si è mai sposata», commentò Bordiga. «E' uno sporco fotomontaggio con il quale il partito ha cercato di denigrarmi presso i miei compagni. Togliatti ne sa qualcosa».

Non so dire perchè non uscii allora dal partito comunista, visto che ne sapevo abbastanza ed anche troppo. Ora che ci ripenso, trovo che lo feci per non disertare, considerato che era troppo facile e senza danno andarsene a casa, dimenticare, smettere.

 

Massimo Caprara

 

 Il Giornale Nuovo, 23 febbraio 1988