Cerca nel sito



 


archivio > Articoli su Bordiga>Gaetano Arfè, Dal freddo teorerma di Bordiga alla passione di Serrati, (Avanti! 20 gennaio 1991)

aggiornato al: 14/08/2008

Avanti! 20 gennaio 1991

Un bell'articolo di Gaetano Arfè per queste calde giornate d'agosto e un ricordo anche per Giacinto Menotti Serrati, avversario di un tempo che, a differenza di molti altri, merita rispetto.

Questo è il trentasettesimo articolo su Bordiga, preso dalla stampa, quotidiana in gran parte, che abbiamo riprodotto; sicuramente ce ne sono molti altri che non conosciamo. Chiediamo un piccolo sforzo a chi ci legge per portarci a conoscenza di altri articoli da inserire.

Intanto, buona lettura!

 

 

Dal freddo teorema di Bordiga alla grande passione di Serrati

 

I due, interpreti autentici dei sentimenti e delle idee allora largamente diffusi nella sinistra, si succedono alla tribuna in uno scontro di importanza decisiva per le sorti del congresso. Ma sarebbe un errore di metodo in sede storica giudicare Livorno secondo la logica forense dei torti e delle ragioni

 

Al Congresso di Livorno Gramsci tacque. Nel '14, anche se per breve momento aveva creduto nella «virtù rivoluzionaria» della guerra, era incorso nella tentazione di solidarizzare con l'interventismo mussoliniano, la sua cultura era intrisa di idealismo. Per il puritanesimo ideologico e etico della sinistra, quella bordighiana come quella serratiana, erano peccati - questi - meritevoli di purgatorio. La sua elezione in Comitato Centrale non fu del tutto pacifica. Nel lungo discorso di Bordiga, assai parco di riferimenti a persone, il nome di Gramsci è tra i pochi che vi compaiono e in termini di tiepida difesa: «Vi possono essere tra noi - dice Bordiga, riferendosi alla frazione comunista - deboli, incapaci, incompleti, possono esservi tra noi dei dissensi: Gramsci può essere su una falsa strada, può seguire una tesi erronea quando io sono su quella vera, ma tutti lottiamo ugualmente per l'ultimo risultato».

Le idee e i sentimenti largamente diffusi nella sinistra trovano a Livorno i loro interpreti autentici in Bordiga stesso e in Serrati, i quali si succedono alla tribuna in uno scontro di importanza decisiva per le sorti del congresso.

Tanto l'uno quanto l'altro non sono dei convertiti dell'ultima ora alla causa della rivoluzione.

Piemontese d'origine, figlio di un agronomo illustre docente presso la facoltà di agraria di Portici, l'ingegner Bordiga aveva fatto le sue prime armi nella Federazione Giovanile Socialista e vi si era distinto per una sua polemica con Angelo Tasca intorno ai temi del «culturismo»: la sola azione culturale meritevole di essere praticata da socialisti era per lui la preparazione alla rivoluzione. Aveva fondato a Napoli un circolo giovanile «Carlo Marx» che aveva esordito con un opuscolo di spietata denuncia delle degenerazioni opportunistiche del socialismo napoletano. Di fronte alla guerra aveva bollato come opportunistica la formula del «né aderire, né sabotare». Lo scoppio della rivoluzione russa gli era apparso come la naturale conferma delle sue ipotesi. Aveva dato vita nel dopoguerra a una rivista, Il Soviet, che aveva costituito più che L'Ordine Nuovo di Gramsci, un faro ideale e un centro organizzativo della «frazione» comunista.

Il suo discorso a Livorno è di un lineare rigore. L'involuzione corporativa del socialismo europeo all'insegna dl riformismo è stato il prodotto di una fase, entrata in irreversibile crisi, dello sviluppo del capitalismo. La dottrina marxista, che era stata originariamente la guida del movimento, è stata insidiata, contaminata e deformata da due revisionismi, quello sindacalista-rivoluzionario e quello riformistico, diversi ma convergenti nella rivalutazione  del momento volontaristico su quello deterministico - e qui il dissenso teorico da Gramsci è radicale - , la classe operaia è stata ridotta a un ruolo subalterno. La rivoluzione dei soviet ha aperto l'era della conquista del potere per via insurrezionale da parte del proletariato e questo esige la guida di una forza rivoluzionaria coesa e compatta epurata da ogni infiltrazione opportunistica, che ha già nella Internazionale di Mosca il proprio centro di organizzazione e di direzione. E le infiltrazioni dalle quali bisogna liberarsi non sono quelle chiaramente visibili e onestamente dichiarate dei riformisti, bensì quelle dei centristi che accettano a parole l'idea della rivoluzione, ma ne circondano la traduzione in atti di tali riserve e di tali cautele da renderla impossibile. Il simbolo del centrismo è Giacinto Menotti Serrati.

Il discorso di Bordiga ha il rigore di un teorema. La sua polemica non è segnata da invettive, nei confronti degli avversari interni. La sua certezza non è offuscata da ombra di dubbio: vi si sente l'etica della predestinazione ispiratagli dalla tradizione protestanica della famiglia.

Una incontenuta passione anima, invece, il discorso di Serrati. Partito dalla natia Spotorno, Serrati aveva conosciuto miseria e galera, aveva avventurosamente vagabondato da un capo all'altro del mondo, tra i proletari, tra i poveri, tra i reietti, era stato propagandista e organizzatore. In un momento critico era stato chiamato a sostituire l'espulso Mussolini alla direzione dell' Avanti1, aveva fatto del giornale la bandiera della lotta alla guerra, era stato a Zimmerwald, aveva con ingegnoso stratagemma, eludendo la censura, pubblicato sul giornale il manifesto che di lì era partito, era finito in galera dopo i moti di Torino del '17, era diventato dei capi socialisti il più popolare tra le masse e il più amato.

La sua solidarietà con i rivoluzionari russi, nutrita dalle ragioni del sentimento prima che da quelle della dottrina, era stata immediata e incondizionata. L'adesione alla Terza Internazionale, votata con ambigua unanimità  dal Partito Socialista nel '19, era stata da lui data con tutto «lo slancio dell'anima», aveva significato l'impegno a «fare come in Russia», aveva fondato una rivista il cui programma era nel titolo: Comunismo. E però quando da Mosca erano arrivati i ventun punti alla cui accettazione era subordinata la ratifica dell'adesione - tra essi il cambiamento di nome del partito e l'espulsione dei riformisti - era stato Serrati nella sinistra il più autorevole oppositore, era stato lui a impegnare con Lenin dalle colonne dell' Avanti! un memorabile scontro nel corso del quale sono anticipati e anche più largamente argomentati i temi del suo intervento congressuale.

A ispirarlo, sostennero allora i «puri» del comunismo erano state, anche questa volta, le ragioni del cuore: la sterile fedeltà ai simboli, l'attaccamento ai compagni di tante lotte dei quali conosceva la fede e la buona fede. E' un giudizio superficiale e ingeneroso. Serrati vedeva, per  certi aspetti, più chiaro e più lontano di quanto non vedessero i dottrinari, pur della levatura di Bordiga, gl'intellettuali, pur della levatura di Gramsci, i capi vittoriosi della rivoluzione di ottobre.

Bordiga aveva condannato con fredda, sprezzante sufficienza l'intera tradizione del socialismo italiano, impotente intreccio di riformismo e di opportunismo. Serrati la difende in blocco: è stata gloria del Partito socialista nella sua unità guidare in Italia un processo di emancipazione e di liberazione delle classi popolari che lo ha posto all'avanguardia in Europa e che lo ha portato ad essere, di fronte alla guerra, il solo partito che pur con differenziazioni di non poco conto non abbia ceduto al «socialpatriottismo», che si sia battuto per la pace. I suoi «destri» non hanno mai rotto la disciplina di partito e sarebbero essi stessi ad allontanarsi il giorno in cui ritenessero di non poterla più osservare. La loro espulsione fiaccherebbe lo strumento politico del proletariato italiano, getterebbe nello scompiglio l'intero movimento di classe. Ai socialisti francesi diventati comunisti sono state concesse deroghe che hanno aperto le porte del nuovo partito a elementi dai trascorsi massonici, bellicistici, nazionalistici, in Italia si vogliono mettere al bando uomini che mai hanno tradito, che hanno la fiducia piena del movimento operaio.

Bordiga aveva ripetutamente affermato - riscuotendo ogni volta gli applausi entusiasti della frazione dei «puri» - che in Italia, per i socialisti, non esisteva sbocco diverso da quello della conquista del potere per via insurrezionale. Serrati contesta che vi sia in Italia una situazione immediatamente rivoluzionaria per cui basterebbe costituire,  lacerando il vecchio, un nuovo partito perchè la rivoluzione sia fatta.

Bordiga aveva sostenuto che la massiccia presenza riformista alla testa dei sindacati e delle cooperative e alla guida delle amministrazioni locali costituiva un ostacolo allo sviluppo della iniziativa rivoluzionaria. Per Serrati è qui la sola e insostituibile forza del movimento operaio nel suo insieme. In Russia - è un motivo che egli aveva già incisivamente sviluppato nella sua polemica con Lenin - l'assenza di autonome e organizzate istituzioni di classe con le quali e intorno alle quali costruire l'ordine socialista aveva favorito la nascita di una casta di profittatori del potere, di «pescicani della rivoluzione», che minacciava di porre la propria pesante ipoteca sugli sviluppi del processo rivoluzionario. In Italia una «scissura» nelle organizzazioni economiche del proletariato si sarebbe ripercossa «aspra, cattiva, maligna e dissolvente» nell'intero corpo del movimento ad esclusivo vantaggio della borghesia e avrebbe reso assai più arduo il compito di riorganizzare la società nel segno del socialismo. Quello che manca, nel discorso di Serrati, è una indicazione politica su quel che si debba fare nell'attesa della rivoluzione mentre la «controrivoluzione preventiva» condotta dai fascisti è già nel suo pieno sviluppo.

La posizione assunta da Serrati a Livorno fu determinante ai fini del contenimento della scissione, e questo dai comunisti non gli fu mai perdonato. Credente al di là di ogni dubbio nella causa della rivoluzione incarnata nella Internazionale di Mosca tutta la sua azione dopo Livorno fu ispirata dall'assillo di ottenere la revisione della sentenza. Ma, nel gergo comunista, il suo nome divenne simbolo di opportunismo e peggio, un autentico linciaggio morale contro di lui fu organizzato su scala internazionale. E quando, tre anni dopo, espulso dal Partito socialista con la frazione dei «terzini» trovò accoglienza nelle file comuniste, nessuna mortificazione gli fu risparmiata. Lo ammise Gramsci in un suo commosso necrologio. Raccontò gli episodi del suo calvario, chiuso nel 1926 per quello che una volta si chiamava crepacuore, Umberto Terracini quando, insieme a lui, mi trovai a Spotorno a ricordare Serrati cinquant'anni dopo la sua morte. Egli stesso, confessò, vi aveva avuto parte per lo zelo portato nella caccia al centrista che Lenin stesso gli aveva rimproverato.

La sorte non fu più benigna con Bordiga. Entrato in dissenso con l'Internazionale, messo per questo in minoranza nel partito che egli aveva concorso a fondare, ne fu poi espulso con infamia. La calunnia a suo carico si esercitò senza freni. Dalle lettere dal carcere di Gramsci si cancellò il suo nome: non si doveva sapere che Bordiga gli preparava il caffè e che insieme giocavano a scopone.

Il processo di espunzione investì poi anche Gramsci, Terracini incorse in condanna per eresia. Per tutti, al di là della diversità delle posizioni, il motivo di fondo sempre lo stesso: il rifiuto di accettare passivamente una disciplina imposta dall'Internazionale secondo una logica che era insieme di chiesa e di caserma. Togliatti affrontò il problema solo alla vigilia della morte e, anche allora, dentro i limiti di una formula già interamente superata dal corso della storia: l'unità nella diversità.

Sarebbe un errore di metodo in sede storica giudicare il congresso di Livorno secondo la logica forense dei torti e delle ragioni. A Livorno si esprime una tendenza presente e diffusa in tutto il movimento socialista europeo e in quell'ambito emerge un originale e fecondo filone autoctono, quello rappresentato da Gramsci.

Oggi, venute meno le ragioni politiche della lunga ininterrotta polemica del lontano e recente passato, solo un giudizio che si levi all'altezza della storia può dare alimento alla cultura languente politica della sinistra di ispirazione socialista.

Oserei dire che quel settore di essa che saprà arricchirsi di un recupero critico della tradizione socialista italiana nella sua dialettica unitarietà - Bordiga e Serrati, Turati e Gramsci, Nenni e Saragat, Togliatti e Amendola - si conquisterà i titoli per dare l'impronta ai tormentati processi in corso nel suo seno.

La cultura comunista non ha finora dato segno di essere pari alla prova.

 

Gaetano Arfè

 

Avanti della domenica, 20 gennaio 1991