Cerca nel sito



 


archivio > Articoli su Bordiga>Raffaele Colapietra: "Storia della Sinistra Comunista" (Rassegna di politica e storia, 1965)

aggiornato al: 30/11/2009

Rassegna di politica e storia, n. 132, ottobre 1965

All'uscita del primo volume della Storia della Sinistra comunista nel 1964  Raffaele Colapietra pubblicò questa  recensione che ora offriamo ai nostri lettori.

Bordiga nella Storia della Sinistra aveva ampiamente citato il lavoro di Colapietra uscito nel 1962 Napoli tra dopoguerra e fascismo e riferendosi ad esso aveva scritto: Una tesi preferita [dall'autore] è che il gruppo del Soviet in materia di tattica non accumulasse che errori marchiani, ma che le sue enunciazioni mostrassero una giusta e potente visione storica. Possono forse i fessi avere una profetica visione del futuro storico? Se così è abbiamo trovato un'altra ragione per star ben schierati tra i fessi.

Non sappiamo poi se Bordiga lesse  questa recensione (non esente da critiche, ma anche puntigliosa, particolareggiata ed interessante) e cosa ne pensasse. Noi pensiamo che valga la pena leggerla.

 

 

Storia della sinistra comunista

 

Con questo titolo Amadeo Bordiga ed un gruppo di suoi collaboratori hanno messo insieme nel 1964 un primo volume espositivo, critico e documentario (pp.415 L. 2.500) il cui materiale giunge alle soglie del congresso di Bologna dell'ottobre 1919: una lettura che utilmente può venire integrata da La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin (pp.110 L. 800), un opuscolo contemporaneo che raccoglie la commemorazione bordighiana di Lenin pronunziata quarant'anni or sono, in epoca di contrastata ma ancora indiscussa preminenza della sinistra sul comunismo italiano, ed una diffusa analisi dello scritto leniniano sull'estremismo, così di frequente assunto come testo di sconfessione del «settarismo» appunto della sinistra comunista. Vicende internazionali, la scomparsa di Togliatti, il persistente e crescente disagio del partito nella fabbrica, il nuovo significato conferito alle vecchie parole d'ordine dell'unità e della via nazionale al socialismo, tutto ciò ha contribuito tra i comunisti italiani ad un attento ripensamento dell'opera politica e culturale di Bordiga, ripensamento iniziato da Santarelli, e che Spriano ed Adriano Sofri stanno conducendo avanti, dopo le interessanti anticipazioni che un eretico il Romano, aveva fornito a proposito della polemica di Bordiga con Tasca su cultura e sentimento, educazione ed istinto circa la formazione delle giovani leve socialiste. Partito e sindacato hanno oggi perduto la loro accezione tradizionale: e non è perciò meraviglia che la politicità partitica ossessiva, esclusivista, a fine rivoluzionario, di Bordiga torni in primissimo piano come una esigenza da tener presente se non come un modello da condividere. Il partito come stato maggiore di un processo umanistico di liberazione (il «sentimentalismo») che, facendo leva sulle avanguardie operaie ma prescindendo dal loro ambito localistico di lavoro e produzione (l'anti-economicismo) conduca, attraverso procedimenti associativi del tutto autonomi rispetto alla prassi democratica e parlamentare borghese (l'astensionismo elettorale ed il soviet come organo di conduzione tecnico-produttiva egemonizzato dal partito) alla creazione di una classe rivoluzionaria cosciente che si sente tale, al di là delle categorie componenti e divergenti in essa (polemica contro il sindacalismo riformista) allo scopo di abbattere con un atto di necessaria violenza proletaria (polemica contro il gradualismo) lo Stato borghese, distruggendolo bensì, ma tenendo ferma l'esigenza istituzionale dello Stato (polemica contro gli anarchici) che il partito edificherà allargando la sua opera dal campo politico a quello economico e sociale, respingendo così la via revisionistica di un'indiscriminata unità nazionalpopolare come il terrorismo annientatore staliniano, ma affermando l'esigenza di una dittatura proletaria anche pluridecennale, rigorosa, perseverante, atta a scomparire esclusivamente nello Stato comunista; ecco, sommariamente e rozzamente, le linee maestre della strategia rivoluzionaria bordighiana, i cui elementi di interesse, le cui verifiche storiche, le cui prospettive sul piano mondiale non possono certo passarsi sotto silenzio, al pari della solidità e coerenza dei suoi presupposti dottrinari. 

Appunto allo scopo di documentare discutere siffatta coerenza risponde il volume di cui si discorre; un volume preparatorio all'esame della fase centrale e culminante del movimento, ma notevolissimo così per la storia interna del suo principale autore come per l'esemplificazione di numerose direttive strategiche  ed interpretazioni storiche giacché, a dirla francamente, e facendo forza alla scontrosa ritrosia di Bordiga, un filo rosso che colleghi lui al precedente ventennio di «intransigenza» socialista non riusciamo a vederlo, se non in alcuni atteggiamenti, sia pure significativi (né è un caso che proprio sul nodo più delicato della narrazione, l'incontro-scontro con Mussolini, dove la fiammata insurrezionalistica e volontaristica vien meno, e risorge dalle sue ceneri la geometrica, deterministica fenice dell'ortodossia, auspice appunto Bordiga, proprio lì, dunque, le pagine scorrono veloci e poco convincenti). Prendiamo la politicità del partito, un caposaldo su cui s'insiste fin dalla prima pagina, respingendosi nettamente il corporativismo operaio: che ha ciò a che fare con i «circoletti» e la polemica contro il «contadiname» dei rivoluzionari del 1904? Che cosa con i fondamenti etici e giuridici del sindacalismo soreliano? Il proletariato napoletano si è politicizzato con Bordiga ed il partito è entrato con lui nella fabbrica, pervenendo ad una struttura sindacale non rivendicazionista tout court ma anticipatrice delle strutture della società futura: un'identificazione, una simbiosi prettamente marxiste, che in Italia non avevano precedenti, e che si distinguono anche, a parte le schiaccianti e non trascurabili divergenze ambientali, dall'avanguardismo volontaristico ed aristocratico degli ordinovisti torinesi. E non parliamo della fermissima ripulsa del bakuninismo che non sappiamo quanto da Bordiga si possa estendere ai suoi predecessori «intransigenti», allo stesso Lazzari, da lui trattato con un misto di tenerezza e d'insofferenza quanto mai eloquente. E non parliamo infine dell'esigenza vigorosa del centralismo e della rigida disciplina del partito (ma i rapporti con Mosca dopo Livorno? ecco uno degli innumerevoli spunti di curiosità e d'attesa per il secondo volume) tutte cose che presuppongono qualcosa di radicalmente nuovo e diverso rispetto alle tradizioni scissionistiche del socialismo non soltanto italiano, qualcosa di non riportabile alla pachidermica ed innocua uniformità della socialdemocrazia tedesca, qualcosa che forse sarebbe stato impensabile, irrealizzabile certamente, senza la guerra.

Andrea Costa è posto da Bordiga, con originalissima tesi, quale capostipite della sinistra comunista italiana, sulla base di tre presupposti, la fatalità storica della rivoluzione, il suo carattere insurrezionale e violento, la sua connessione con un partito fortemente ordinato: soltanto quest'ultimo, in realtà, degno di riflessione (ancorché esso, quattro anni più tardi, non impedisse al Costa di prender parte al fascio democratico anti-trasformista, e venisse più tardi fatto proprio, non senza qualche noto strumentalismo, dal Turati in dissenso col Labriola) giacché gli altri due possono ricondursi a generiche ascendenze evoluzionistiche e barricadiere. Il partito, comunque, è negli anni ottanta simbolo e porro unum  del socialismo, come lo sarà in seguito della sinistra bordighiana, una volta esauriti ad un tempo i miti del sindacalismo rivoluzionario e del riformismo rivendicazionista: partito che si costituì a Genova su connotati dichiaratamente e quasi accentuatamente classisti, ma su prospettive che ribadivano l'immaturità culturale e l'incertezza strategica della nuova, decisiva formazione politica, un gran parlare di «espropriazione» e «gestione della produzione» che illuminava bene la persistenza dell'insurrezionismo facilone, l'approssimazione tecnica, propri un po' di tutto il socialismo italiano, comprese le variopinte frange della sua sinistra, anche figure nobilissime come Barbato, che il Bordiga avvicina al Costa di vent'anni addietro su quei presupposti della violenza, dell'utopismo, del socialismo incosciente, che nel medico siciliano assumevano contorni messianici ben distanti da formulazioni scientifiche marxiste (non per nulla i patti agrari di Corleone e le violenze contadine contro gli obiettivi tradizionali dei dazi e delle gabelle sono in Sicilia, negli stessi anni, due parallele, il gradualismo e lo spontaneismo, che s'ignorano a vicenda e non s'incontrano mai: sin quasi, è il caso di dirlo, ai giorni nostri!).Una conclusione negativa in proposito viene ribadita anche dalla assoluta trascuratezza onde la sinistra di fine secolo, quella pseudo-rivoluzionaria dei Soldi e dei Parpagnoli, la cui egemonizzazione non solo politica da parte di Enrico Ferri significa pur qualcosa, affronta e valuta il problema imponente del movimento economico e cooperativistico, non certo adeguatamente inteso, del resto, nel suo carattere di massa potenzialmente sovvertitore, dal parlamentarismo riformista: e Bordiga non si cela in merito i concorrenti pericoli, da un lato, della svolta borghese a sinistra patrocinata dal re e da Giolitti, dall'altro, della dialettica marxista maneggiata elegantemente a scopi riformistici da uomini come Treves. Il sindacalismo, che propugna la costituzione del proletariato in classe egemone e cosciente, chiudendo a questo punto il processo, non affronta neppur esso il problema centrale della funzione rivoluzionaria del partito politico, limitandosi ad un disfacimento dello Stato borghese nell'organismo sindacale che Bordiga ripudia altresì per il suo spontaneismo ed «aziendalismo, i capisaldi medesimi, cioè, della polemica contro l'Ordine Nuovo. Le enunciazioni di Lerda non valgono certo a conferire dignità e coerenza ad una distinta tematica di sinistra socialista, vaghissime come esse sono nell'elaborazione concreta del programma massimo, pur a ragione difeso come esigenza teorica e strategica indispensabile rispetto ai cedimenti dell'economicismo e del parlamentarismo. Si fa un gran parlare di educazione, di volontà, addirittura di anima e di spirito, e si apre così la via al «vocianesimo sovversivo» di Mussolini e alla polemica «culturista» di Tasca, due posizioni di estrema sinistra che vanno utilmente affiancate alla contemporanea e affine compagnia di Colucci e Marchioli nel campo riformista della Critica Sociale, sulla prospettiva dell'idealismo crociano e delle frangie modernistiche forse più ancora che non su quella del sindacalismo del Sorel.

S'è già detto quanto approssimativa e frettolosa sia la trattazione dedicata dal Bordiga al delicatissimo punto fino a sbarazzarsi con poche parole del famoso discorso anconetano di Treves contro il «preteso» neo-idealismo della sinistra, che era viceversa, come si sa, cosa ben precisa e massiccia. Il rilievo, è appena il caso si dirlo, non tocca affatto Bordiga, il cui rigido materialismo deterministico è quanto di più distante dal volontarismo irrazionalistico del Mussolini, malgrado le contingenti convergenze pratiche e quel parlare di violenza, d'istinto, di sentimento, che può far pensare erroneamente ad uno spontaneismo bordighiano. In realtà, la gioventù socialista prebellica non è così profondamente ispirata e permeata dal futuro duce come le opere recenti del De Felice e del Romano tendono autorevolmente a concludere. A parte Bordiga (su cui si dovrebbero viceversa precisare le influenze crociane, specie durante la guerra, a proposito delle teoria dello Stato e del «diritto della forza») nello stesso «culturismo» di Tasca si ravvisa una presenza salveminiana, un'esigenza di ordine, di metodo, di pulizia, assai distante dalle vampate mussoliniane. Queste ultime, a ben vedere, avvolgevano volontaristicamente soprattutto il giovane Gramsci, con le sue pronunziate ed inquiete ambizioni intellettualistiche: e nondimeno, distaccandoci qui dalla fine analisi del Romano, non concluderemmo neppur ora per una riduzione tout court di questa visione aristocratica a quell'individualismo esasperato, a quella negazione sprezzante della massa (l'esaltazione sovversiva della «folla» è tutt'altra cosa!) così caratteristica del Mussolini: l'aristocrazia è, o almeno tende pertinacemente a farsi operaia, a calarsi, ad integrarsi, mentre in Mussolini la scissura dell'intellettuale è precisa, consapevole, e tende ad esasperarsi in forme di assoluta autonomia creativa.

La guerra fu a questo punto la cartina di tornasole tragicamente indispensabile per la verifica di una crisi già in atto, attraverso il colossale equivoco sanguinoso della settimana rossa, un movimento offensivo che si arresta alle soglie dell'enunciazione terroristica indiscriminata e, per lo più, nella preminente componente anticlericale e «romagnola» banalmente anacronistica. L'analogia della linea bordighiana con quella leninista (neutralismo di principio, ma accentuazione della lotta di classe allo scopo di gettare le basi della futura guerra civile che trasformerà in rivoluzione l'eventuale guerra imperialistica) è in questo caso assai pronunziata, e distingue nettamente il leader napoletano così dalla «tattica castrata» adottata ufficialmente dal partito come dall'illusoria alternativa tra guerra e «rivoluzione» repubblicana  agitata dagli interventisti di sinistra. La guerra è di per sé, in quanto tale, una rivoluzione affermerà Mussolini, con una formula destinata a rivelarsi geniale e feconda, in quanto la sola rispondente ai presupposti e agli obiettivi del futuro duce, la «disponibilità» di masse sterminate a fini di generica sovversione, che l'evoluzione delle vicende politiche avrebbe precisato in un senso o nell'altro. Per i socialisti, viceversa, la fase indispensabile della «trasformazione»  rimase completamente obnubilata, nella ricerca esclusiva della salvazione d'anima («Faccia la borghesia la sua guerra!»), una posizione negativa ed astensionistica che Bordiga «interventista della lotta di classe e della rivoluzione» respingeva recisamente, ritagliandosi una linea politica e polemica già potenzialmente scissionistica all'interno del partito ed abbastanza distinta anche rispetto al deplorato «immediatismo» dei compagni torinesi, che in quelle distrette s'identificava col puro e semplice interventismo (e qui sarebbe da discutere se una mobilitazione rivoluzionaria ed intimamente militare del proletariato fosse possibile senza una guerra in corso: ecco la felicità dell'intuizione mussoliniana, una volta svanita una contrapposizione estremamente fittizia tra massa interventista e sfere dirigenti conservatrici. Quali furono, peraltro, gli aspetti pratici, organizzativi, di questa posizione bordighiana? Va rilevato innanzi tutto che essa prese forma e sostanza durante la guerra, e nell'ambito locale napoletano donde sarebbe scaturito il Soviet. Ancora una volta, nonostante i collegamenti e le ascendenze che Bordiga procura di stabilire con la gioventù socialista, la linea di quest'ultima alla vigilia e nel corso del conflitto solo faticosamente andò precisandosi nel senso della sua, che è un'elaborazione pressoché individuale, un'interpretazione più che una direttiva d'azione, in ciò contrapponendosi a Bordiga il solito Treves (e ciò conferma la natura di raffinata esegesi marxista, più che di autentico vigore organizzativo, rivestito da questi dibattiti), l'unico tra i riformisti che avesse identificato la fase della «trasformazione»  e che, appunto per evitarla, insistette per la fine immediata del conflitto e la pronta smobilitazione. L'unitarismo apodittico del partito e il disfattismo puramente negativo dei soldati a Caporetto furono i due fenomeni che bloccarono la situazione e ne impedirono, se non uno sbocco, un indirizzo coscientemente rivoluzionario. Il prevalere del massimalismo unitario ed elezionista interdiceva ai «sinistri» la scissione mentre rifiutava l'espulsione dei riformisti, tracciando a sé una direttiva parlamentare di cui Bordiga fece subito l'obiettivo principale della sua polemica, dissociandosi da Lenin col negare, ed a ragione, la possibilità di uno svuotamento dall'interno d'istituzioni parlamentari così solidamente radicate nella tradizione liberale e democratica come quelle occidentali, tali dunque da dover venire affrontate ed abbattute dall'esterno, con un'azione violenta antistatale di massa. Ma con quali forze?

I soldati a Caporetto avevano gettato le armi della guerra borghese ma non già, come in Russia, per riprenderle a conquista e tanto meno a difesa della rivoluzione; i fatti di Torino comprovano una situazione di disagio, di stanchezza, che nulla ha di costruttivamente rivoluzionario; la gracile struttura statale italiana rischia d'andare a pezzi senza che una definita formazione politica classista, neppure la borghesia così a lungo ed invano flagellata da Pareto e Pantaleoni, riesca a prenderne il posto con tempestiva concretezza. I contadini anelano alla pace e alla terra, gli operai a forme ordinate di produzione che solo faticosamente si evolvono verso la cogestione, il controllo, il consiglio di fabbrica, i ceti intermedi ondeggiano irrequieti. E' questo senza dubbio il momento di un partito minoritario, classista, aggressivo, di struttura militare: ma questo partito non esiste, la scissione di Livorno si verifica con non meno di quattro anni di ritardo: lo slogan «pace non vittoria», agitato dalla gioventù socialista, si consuma come una mera enunciazione disfattista senza il suo indispensabile completamento rivoluzionario. Bordiga a Napoli aveva attivamente ed efficacemente lavorato in questo senso, e lo scrivente non ripeterà qui quanto è scritto nel suo volume Napoli tra dopoguerra e fascismo che lo stesso Bordiga prende cortesemente come traccia per la sua esposizione in merito, non risparmiando qua e là qualche apertura polemica, nell'erronea supposizione che lo scrivente sia un «centrista» (leggi togliattiano) a lui pregiudizialmente avverso, mentre quelle pagine sono vergate con assoluta indipendenza di spirito e assenza di «codardo oltraggio» e sottolineatura di taluni capitali elementi rivoluzionari, del che non posso oggi se non compiacermi. Nel corso del 1919 il proletariato napoletano è pesantemente e più volte disfatto dalla fortissima resistenza padronale, e ciò proprio perché il processo di politicizzazione iniziato da Bordiga è ancora incompleto, l'identità tra partito e classe, e l'egemonia del primo sulla massa operaia, non ancora affermate, il socialismo organizzato largamente intinto di riformismo aziendalistico (i metallurgici dell' Ilva) e localistico (Sandulli a Torre Annunziata). Il contrasto con Misiano sull'elettoralismo (argomento rinviato il 14 settembre dal congresso regionale a quello nazionale, soltanto le sezioni di Napoli, Castellamare, Valle S. Giovanni, Barra e Pozzuoli, con sei delegati essendosi pronunziate per l'astensionismo, mentre i cinque delegati di Ponticelli, S. Giorgio, Portici, Torre Annunziata, Boscotrecase si astenevano o si pronunciavano per l'elezionismo) introdusse una scissura destinata a durare ed a proiettarsi anche in campo internazionale, nel dissenso che oppose in merito Bordiga e Lenin, complicata com' essa era dal non meno impegnativo dissidio con l' Ordine Nuovo: tutte sfumature assai pronunziate all'interno della frazione comunista, tali da indebolirne le forze e ciò del resto inevitabilmente, trattandosi di presupposti strategici del tutto decisivi. Bordiga ebbe forse il torto tattico (e qui mi rincresce di dover insistere in una valutazione a posteriori opposta alla sua) d'identificare  nell'astensionismo elettorale il porro unum della sinistra comunista, o almeno di porre in primissima, ostentata linea quest'esigenza contro la quale cozzava l'unanimità del partito e la diffidenza di Lenin. Bordiga conosceva bene, a differenza di quest'ultimo, le vischiosità irresistibili dei parlamenti borghesi, e perciò la sua giustificazione storica dell'astensionismo è, come tale, irreprensibile. Ma forse, sul piano politico, egli avrebbe fatto meglio a picchiare sulla necessità della spietata e già tardiva selezione del partito, dell'epurazione, dell'organizzazione militare, quella creazione di strutture, insomma, al di fuori e al di là degli innocui socialisti deputati, che avrebbe potuto forgiare un valido strumento rivoluzionario o quanto meno un potente argine all'offensiva fascista, meglio che non la pur importantissima, rapida diffusione del giovane partito comunista nel seno della massa operaia e degli stessi tradizionali organismi sindacali. ma su questo argomento, sugli anni della collaborazione dialettica con  l' Ordine Nuovo e dell'ingresso nell'arengo internazionale, converrà attendere il secondo volume della silloge.

Il primo, come s' è detto, è costituito per un' abbondante metà da testi documentari del settennio che separa l'esordio di Bordiga dal congresso di Bologna. Abbiamo così i testi della polemica «culturista» in cui l'entusiasmo e la fede del giovanissimo leader napoletano respirano una atmosfera genericamente idealistica  più vicina al Colucci  che non allo sprezzante volontarismo di Mussolini: è un'esigenza etica di solidarietà, di fratellanza, di elevazione, che trascende il corporativismo operaio e si articola in una ricca prospettiva umanistica, fermi i capisaldi del partito e della classe, che mantengono Bordiga fermamente al di qua del sorelismo. Radicalismo anticlericale, organizzazione economica, antagonismo classista, sono i primi approssimativi presupposti della nuova tematica bordighiana: approssimativi diciamo, in quanto essi vengono ancora compresi nell'ambito di un «sano e fattivo idealismo» (3 febbraio 1913) alla base del quale è senza dubbio l' indignatio moralistica  per le «morbose degenerazioni» del socialismo napoletano, uno stadio sentimentale e localistico che Bordiga avrebbe dovuto superare, e trascese in effetti molto rapidamente, per poter tracciare al partito direttive sempre più rigorosamente marxistiche.

Il rifiuto della filosofia, e più propriamente del neo-idealismo, è la prima tra queste, e tra le più rilevanti, un'intuizione che avvicina obiettivamente Bordiga a Treves e taglia fuori Mussolini, anche dalla rivendicazione della dignità umana dell'operaio rispetto allo sfruttamento della moderna tecnica industriale (un tema questo, che si appanna  nel Bordiga recentissimo, fermo a squadrature sommarie, insensibile alle evoluzioni della scienza, quasi che il neo-capitalismo e la bomba atomica non esistessero: un rigorismo che giornalisticamente si direbbe «cinese» se poi Bordiga non comprovasse di essere uomo del suo tempo e della sua generazione, e quindi ostinatamente europeo, con quel patetico auspicio di un ritorno del proletariato tedesco alla guida della rivoluzione mondiale, contro l'imperialismo americano ed il revisionismo russo: e qui, non paia temerario l'accostamento, ravvisiamo il contemporaneo ideale di Benedetto Croce, uno fra i tanti uomini in cui le revolverate di Sarajevo hanno ucciso buona parte di se stessi). In questo senso, la ricerca di una cultura integrata nell'ambiente medesimo di lavoro, e scaturente da esso, contro l'ingentilimento, l'educazione, l'istruzione, propugnate dai riformisti, dall' Unità, da Tasca, è un passo fondamentale verso l'identificazione tra partito e classe il cui l' humanitas tutta intera del proletariato potrà liberamente dispiegarsi a finalità rivoluzionarie. Tale identificazione, naturalmente, porta in sé qualcosa di meccanico, di precettistico, che evita di confrontarsi con la realtà: così dicasi per la pretesa uniformità del movimento operaio rispetto alla varietà irriducibile degli infiniti nazionalismi: una petizione di principio che Bordiga ragiona opportunamente in funzione anti-irredentistica ma tiene poi ferma anche oggi, sul piano mondiale, allorché il mito o il pretesto della nazione si rivela ancora così vitale da introdurre scissioni vistosissime nel campo socialista non meno che in quello capitalistico.

Revisionismo, opportunismo, tradimento, non si vuole discutere: ma è un fatto che il nazionalismo si sposa volentieri agli estremismi di opposto colore ed è solo nel deprecato centrismo che si ravvisa un germe di fecondo internazionalismo o quanto meno di pacifica convivenza (eresia anche questa, oggi, per Bordiga, sordo ai rapporti di forza ed attento ad architettare, su basi rigidissime di pensiero, un'autentica metafisica rivoluzionaria, una sorta di canone alla cui stregua misurare le mutevoli vicende umane: ed in questo senso, di stimolo, di critica, di coscienza dell'errore e dell'incompiutezza, la sua opera, eroicamente assidua è di altissima fecondità, morale non meno che dottrinaria).

Bordiga conclude vittoriosamente la sua milizia socialista d'anteguerra col discorso al congresso di Ancona sulla tattica amministrativa, antibloccardo al punto da rinnegare anche le coalizioni «morali» di fine secolo che, indubbiamente dannose per il socialismo del resto d'Italia, avevano avuto a Napoli una funzione di choc non trascurabile, un voltar pagina su cui era colpa del partito socialista se le sole parole nuove fossero state scritte dal non socialista Nitti, se l'intesa tra agrari, siderurgici e zuccherieri denunziata dai liberisti e da Salvemini fosse tuttora in condizione di controllare le sorti del Mezzogiorno: sorti che la guerra minacciava ora di alterare in modo duraturo ed imprevedibile. Bordiga, in verità non raccoglie né interpreta l'appello pacifista che saliva dalle masse contadine meridionali e non, come ad esempio, avrebbe fatto un Miglioli. La sua visione classista e sempre più conseguentemente rivoluzionaria lo spinge ad affrontare gli avversari più che a preservare gli amici, a smascherare genialmente l'equivoco della guerra premeditata dagli ambienti feudali ed autoritari d'Europa, a ragionare quell'identificazione tra democrazia industriale ed imperialismo guerrafondaio che negli stessi mesi il volume del Nitti sul capitale straniero in Italia tratteggiava con fermezza spietata. E' la Germania moderna quella che spinge alla guerra, trusts non junkers: è un forte argomento rivoluzionario, pur non toccando esso la sostanza della polemica interventista, doversi cioè impedire il monopolio incontrollato germanico in Europa, militare o bancario o industriale ch'esso fosse, e ciò proprio grazie ed attraverso le divergenze insuperabili che dividevano i paesi dell'Intesa, rendendo impensabile una pax anglica almeno altrettanto quanto appariva probabile quella tedesca. Bordiga si limita invece a seguire a grandi linee i termini di classe del problema, a sottolineare, ad esempio, il rafforzamento che al predominio borghese viene dalla formula di guerra difensiva ed unità nazionale, a svuotare crocianamente (e con quella interpretazione machiavellica di Marx cara al filosofo napoletano in quegli anni) la formula della guerra giusta, ma anche, prima dell'esempio leninista, a valutare la guerra come un passo indietro nella storia della lotta di classe, e ciò, vale la pena di notare, durante i mesi della neutralità, prima cioè che la possibilità di una fase di «trasformazione» rivoluzionaria apparisse evidente dinanzi alle masse mobilitate al di là e malgrado il formalistico ostruzionismo socialista, una felix culpa che soltanto il successivo «né aderire né sabotare» avrebbe deteriorato in autentico autolesionismo.

E' merito di Bordiga  aver individuato autonomamente tale fase all'indomani immediato della rivoluzione di febbraio, allorché il 18 maggio 1917, la sezione socialista di Napoli contrappone un internazionalismo proletario «diretto a mutare le basi del presente assetto sociale» a quello wilsoniano, e ad un tempo reclama la cessazione delle ostilità allo scopo di «volgere la crisi al conseguimento degli scopi rivoluzionari del socialismo». In verità, a parte il lavoro organizzativo napoletano di cui s'è fatto cenno, i primi passi della nuova frazione intransigente rivoluzionaria non conducono a direttive chiare e concrete, ove si prescinda dalla consueta negazione della patria borghese, ed esaltazione alla violenza, e così via dicendo. L'insistenza per un programma limpido e rigoroso è certamente benemerita, ma essa mal si concilia con le velleità scissionistiche affioranti qua e là dinanzi al palese disorientamento del partito. Insomma, il lavoro teorico di Bordiga è pronto e consistente, lucido il suo sguardo strategico, ma insufficiente la sua piattaforma di base, per cui egli deve fare a fidanza su un partito quanto mai riluttante a divenire lo «stato maggiore della rivoluzione» come Bordiga reputava indispensabile e, sul piano locale, perseguiva ed otteneva con successo, a Napoli. Egli si rendeva conto della necessità di una guerra civile di classe in Europa per salvare la rivoluzione in Russia ma restava impegolato in Italia tra le bardature confederali, le ambiguità del partito, i sezionalismi tradizionali della classe operaia e last but not least  l'innegabile affermazione di concordia nazionale conseguita attraverso il Piave e la resistenza all'invasione. Fermissimo nel respingere le estreme seduzioni del sovversivismo democratico ed interventista espresse nella proposta formalistica di una Costituente, pronto nel cogliere la novità politica ed istituzionale di un organismo come il soviet purché esso venisse saldamente controllato ed orientato dal partito, calato nella classe, non diluito nelle categorie, Bordiga comprendeva bene quanto lungo fosse il cammino che separava la negatività del primo momento dalla positività del secondo, un anacronismo ottocentesco da un modernissimo ed originale strumento rivoluzionario (in cui peraltro già da Torino si minacciava la vera o presunta infiltrazione economicistica).

Restringere i confini dello stato maggiore per allargare quelli dell'esercito, questa è la parola d'ordine che Bordiga presenta al protagonista attuale del momento storico, al partito politico che va epurato e dinamizzato per diffondere il suo controllo e la sua egemonia sulla classe. Questo è l'argomento centrale nella storia del socialismo italiano tra Vittorio Veneto e Bologna: argomento che ebbe in Bordiga il suo anticipatore ed interprete e protagonista, salvo ad impigliarsi egli nelle secche dell'espediente più consunto della tattica politica borghese, le elezioni generali.

 

RAFFAELE COLAPIETRA

 

Rassegna di politica e storia, n. 132, ottobre 1965