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archivio > Articoli su Bordiga>Franco Livorsi, Bordiga nella storia, (Mondo Nuovo, 16 gennaio 1972)

aggiornato al: 12/04/2010

Mondo Nuovo, 16 gennaio 1972

Questo articolo poco conosciuto di Franco Livorsi è una recensione al libro, uscito qualche mese prima, di Andreina De Clementi (Amadeo Bordiga, Einaudi, Torino, 1971) ed apparve nel settimanale del  PSIUP (partito nel quale Livorsi allora militava).

Qualche anno dopo sarà Livorsi stesso a scrivere una biografia di Bordiga (Amadeo Bordiga,  Editori Riuniti, Roma, 1976).

Ci pare interessante, e utile per i nostri lettori, riprodurre questo documento di difficile reperibilità e abbastanza sconosciuto.

 

 

Bordiga nella storia

 

Un volume sul primo segretario del PC

 

 

Quando il Congresso di Lione condannò con grande rigore la scelta di Bordiga compì una giusta scelta strategica - Di questa scelta è necessario esaminare approfonditamente le motivazioni ideologiche e politiche giacché il problema, seppure in forme nuove, si ripresenta nell'attuale fase del movimento operaio.

Andreina De Clementi, valente studiosa di storia contemporanea che aveva già dato importanti contributi sulla «Rivista storica del socialismo», sui problemi delle origini del PCI ed in particolare del bordighismo ha recentemente pubblicato, presso l'editore Einaudi, la prima opera organica su Amadeo Bordiga. Era ora: è proprio il caso di dirlo. Dopo tanti lavori globali oppure specifici sul movimento operaio contemporaneo, mancava ancora un libro complessivo sul primo segretario del PCI. e la cosa non era di poco conto, come ormai appariva da mille sintomi. Intanto la tesi del puro settarismo di Bordiga, dal quale al congresso di Lione, con Gramsci, ci si libera quasi rifondando il partito, era ormai indifendibile; Bordiga, come vedremo, un settario lo fu davvero, ma di un tipo di settarismo ben particolare. Del resto, anche restando ai pochi scritti relativamente recenti di Bordiga (dalla «Storia della sinistra comunista», a «Struttura economica e sociale della Russia d'oggi», agli opuscoli anonimi eppure chiaramente suoi su «L'estremismo» di Lenin e sul parlamentarismo) - si restava in un certo senso sorpresi. Perché Bordiga, anche quando sosteneva per il presente tesi proprie di un passato irripetibile del movimento operaio e comunista, appariva sempre, anche come «outsider» della politica attuale, un grande saggista, un osservatore di una chiarezza esemplare, un militante di un tale vigore anche morale da suscitare comunque nel lettore un senso di ammirazione e di rispetto. E allora, perché questo silenzio intorno a Bordiga? Perché questa emarginazione politica totale? E ancora: quale è la lezione di tutta questa storia complessiva di Bordiga? Silenzio ed isolamento si spiegano bene: sono cose persino frequenti, ma sempre istruttive, che colpiscono chiunque resta tagliato fuori dalle grandi correnti storiche entro le quali si giocano le sorti delle classi sociali.

Iniziamo dall'atteggiamento di Bordiga nei confronti della borghesia. Innanzi tutto egli insiste, al pari di Lenin di «L'imperialismo» e in generale della Luxemburg, sulla crisi ormai organica del capitalismo mondiale, sottovalutando però gli elementi di arretratezza della borghesia italiana e quindi le possibilità di sviluppo in senso reazionario che di questa erano proprie. Perciò, nel settembre del 1922, in «I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia», sottolinea le profonde radici del capitalismo italiano (al livello commerciale), il carattere modernamente europeo del nostro liberalismo risorgimentale, l'inconsistenza dei residui feudali del sud e la prevalenza, in quest'area, di una media borghesia agraria sin dal tempo dell'unità d'Italia (pp. 165-166). Queste tesi sono nettamente divergenti rispetto a quelle di Gramsci, esposte nel novembre 1922 in «Les origines du cabinet Mussolini», ove si insiste sulla debolezza strutturale della nostra borghesia, sui limiti del parlamentarismo italiano ancora alla vigilia della guerra mondiale, sul carattere paternalistico e non trasformatore dello stesso giolittismo (fase storica che sarà invece valorizzata da Togliatti nel secondo dopoguerra); il fascismo sarebbe quindi l'espressione della borghesia reazionaria, prevalente rispetto alla borghesia di tipo imprenditoriale (pp. 167-168). Sulla base dell'analisi citata sulla maturità del capitalismo italiano, Bordiga non fa vere distinzioni tra crisi internazionale  e crisi nazionale del sistema, e perciò prospetta per l'Italia «il modello dell'esperienza di governo della socialdemocrazia tedesca» (p. 147).

Per Bordiga l'esperienza mondiale che sta tra il 1848 ed il 1914, prima interpretata da Marx e poi semplicemente esplicitata -secondo lui- da Lenin, da luogo a leggi storiche necessarie e reiterabili, sulla base delle quali egli è portato a respingere la stessa linea bolscevica ogni qual volta questa entri in contrasto con esse. Così egli, nonostante il suo entusiasmo per la terza internazionale come partito mondiale del proletariato, non solo attribuisce la vittoria rivoluzionaria in Russia alla maggiore fragilità della borghesia di quel paese rispetto a quella dell'Europa occidentale (come spiegò Lenin), alla situazione per cui la Russia era l'anello più debole del capitalismo (come spiegherà Trotzkji),  ma è portato ad assimilare la situazione russa e la tattica comunista ivi seguita a quella delineata da Marx per la Germania del 1848 (p. 126). Ma poiché è d'altra parte convinto del carattere putrescente dell'intero capitalismo contemporaneo, ed in particolare del suo indebolimento dopo la prima guerra mondiale, deve attribuire la mancata rivoluzione proletaria in occidente alla minore coscienza di classe del proletariato, cioè ad una maggiore capacità di integrazione delle spinte eversive da parte della sperimentata borghesia occidentale (p. 236). Insomma, per Bordiga, ci pare, lo Stato borghese, è strutturalmente socialdemocratico; egli, a differenza dello stesso Lenin di «Stato e rivoluzione», insiste molto di più sulle capacità dello Stato di integrare il proletariato che sulle sue stesse funzioni burocratico-repressive. Perciò esclude in modo totale ogni conquista parlamentare, anche tattica, dello Stato, invocandone la soppressione in nome dell'obiettivo permanente della dittatura proletaria, trasformando la esperienza bolscevica dello scioglimento della Costituente, ed in genere del Parlamento, in legge necessaria dello sviluppo rivoluzionario (p. 100). Questa fobia antiriformista, alimentata dall'esperienza russa - e più in generale dal ruolo controrivoluzionario giocato nel primo dopoguerra dal socialismo moderato in paesi come la stessa Russia, la Germania e l'Ungheria - , non è certo indipendente dalla ostilità nei confronti di tutta l'epoca  giolittiana che egli, ci pare, benché per motivi opposti, valorizza quanto il Togliatti più maturo. In questo contesto si colloca il suo astensionismo elettorale, che è ben più di un motivo inessenziale di polemica con Lenin, come a volte sembra credere la stessa De Clementi, perché per Bordiga il parlamento è l'organo di formale mediazione tra le classi, vero velo dell'illusione che si frappone fra un proletariato sempre più diseredato e la rivoluzione. Sull'astensionismo di Bordiga la De Clementi fa quattro osservazioni molto interessanti: spiega come esso sia catalizzatore di un primo nucleo comunista a livello nazionale (pagina 79); che esso, contro le intenzioni niente affatto libertarie di Bordiga, ha raccolto consensi soprattutto in zone arretrate e tendenzialmente anarchiche (p. 84); che esso, costringendo i massimalisti a chiarire la propria posizione, e quindi la fedeltà al vecchio programma di Genova fondato sulla conquista democratica dello Stato, fu essenziale al fine della discriminazione tra parlamentarismo propagandistico-agitatorio di Lenin e e massimalismo elezionista; che, infine, fu una corrente europea niente affatto isolata, ma con essenziali ramificazioni in Inghilterra, in Germania e in Olanda. Sulla base di una tale impostazione si capisce bene la sottovalutazione bordighiana del fascismo, che per altro fu abbastanza comune, integrato specialmente nel liberalismo (p. 146) e considerato  «un cavallo perdente (...) fino alla conclusione della crisi Matteotti» (p. 234).  Molto più interessante, e forse addirittura anticipatrice di studi quali quello del De Felice su Alceste De Ambris, l'analisi su un certo combattentismo di sinistra  piccolo-borghese, che giunge, attraverso corrette mediazioni alla seguente conclusione: «Un movimento come quello dannunziano potrebbe avere una funzione opposta e simmetrica a quella del fascismo» (p. 185). Comunque tutto il discorso di Bordiga sul rapporto tra partito comunista e classe operaia sta nel quadro dell'analisi della borghesia che abbiamo schematicamente richiamata. Ciò emerge bene in tre occasioni: nelle famose polemiche sull'esperienza torinese dei consigli di fabbrica, sul riflusso rivoluzionario ed in particolare sulla cosiddetta bolscevizzazione. Su tutte queste importanti questioni la De Clementi sembra quasi identificarsi con Bordiga. Questi, sulla questione dei consigli operai, fa due osservazioni di fondo: 1) «Non vi sono organizzazioni rivoluzionarie per virtù formali; vi sono solo forze sociali rivoluzionarie per la direzione delle quali agiscono, e queste forze si risolvono in un partito che lotta con un programma» (p.108); 2) «A Torino si è sopravvalutato eccessivamente  il problema del controllo, intendendolo come una conquista che il proletariato, col nuovo tipo di organizzazione per azienda, può strappare alla classe industriale, realizzando così un postulato economico comunista, compiendo una tappa rivoluzionaria, ancora prima della conquista politica del potere, di cui è il Partito l'organo specifico». (pp. 135-136). Queste due critiche dimostrano che per Bordiga tra lotta economicistica e insurrezione non c'era niente; che l'imperativo, allora e sempre, per lui era quello di serrare le file per la futura insurrezione, mentre il resto era solo oggetto di agitazione, occasione di proselitismo e di propaganda per l'ora X. Era questa una tesi non certo marxiana (pensiamo al Marx di  «Introduzione alla critica dell'economia politica»), accettata dalla De Clementi senza tener conto dell'estrema fecondità di tutta la tendenza dei consigli di fabbrica e del controllo operaio di ieri e di oggi (da Gramsci a Panzieri). Inoltre in questa posizione di Bordiga c'è la negazione della rivoluzione come processo, e quindi di ogni tipo di obiettivo intermedio, si chiami questo consiglio di fabbrica, politica delle alleanze, governo, aggregazione al partito di masse scarsamente «ideologizzate»... Si noti che la sfiducia nel controllo operaio prima della rivoluzione, non tiene conto della esperienza bolscevica di conquista delle masse attraverso una linea democratica ed ancora pluralistica, benché libertaria, quale quella che si esprimeva nelle «tesi d'aprile» ed in generale nella parola d'ordine «Tutto il potere ai soviet»..., superata nel luglio del 1917 e tuttavia indispensabile sia come tentativo positivo sia per conquistare le masse. Sulla stessa linea della critica ai consigli operai, sta la negazione della parola d'ordine leninista della «conquista della maggioranza della classe operaia» attraverso il fronte unico con il PSI e la costruzione del partito comunista sulla base delle cellule di fabbrica. Posto che per il fallimento del rapporto PSI-PCI fu essenziale il no di Nenni e la repressione fascista, ammesso pure che di fronte all'Aventino fu probabilmente più valida la tattica proposta da Bordiga, resta il problema della negazione bordighiana della «bolscevizzazione», intesa come costruzione di un partito a larga base operaia, realmente rappresentativo delle masse, da realizzare a qualsiasi costo, anche attraverso mediazioni coraggiose con altre forze del proletariato. A quest'impostazione, pur tatticistica, dello stesso Lenin, Bordiga, secondo la De Clementi, fa due obiezioni sostanziali: «che la natura e la coerenza dell'avanguardia proletaria non fossero garantite da un'investitura carismatica che la rendesse immune dall'influsso degli sviluppi e delle trasformazioni della realtà storica e che dovesse invece premunirsene pregiudizialmente restando fedele al suo carattere di opposizione istituzionale; che la conquista delle masse non dovesse intendersi come un imperativo categorico da ottemperare in qualsiasi momento e a qualsiasi prezzo, ma potesse essere soltanto il frutto di complessivi rapporti di forza tra le classi...» (p. 154). In queste affermazioni c'è tutta la differenza tra Bordiga e il leninismo: Bordiga non autonomizza mai la sovrastruttura (si chiami questa consiglio di fabbrica o Partito idealmente, sociologicamente e statutariamente operaio); non intende il partito come organo storico della classe, come sintesi unificatrice che precede le masse «ma di un passo soltanto» (come diceva Lenin), ma come la levatrice della classe nella situazione rivoluzionaria... La levatrice che può benissimo stare a casa, raccogliersi in sé, semplicemente testimoniare sulla positività e sulle tecniche del parto, quando il feto della rivoluzione tarda a venire. E' questa l'origine non contingente della sconfitta della posizione di Bordiga al congresso di Lione, la legittimità dei metodi durissimi usati contro di essa da Gramsci e dall'Internazionale, la fecondità dell'impostazione gramsciana del PCI. Questa sconfitta deriva dall'incapacità di accettare il partito non solo come formazione politica «di classe» ma anche «della» classe, cioè dell'operaio d'avanguardia così com'é e non solo come dovrebbe essere; il «gran rifiuto» della sintesi tra realpolitik e principi rivoluzionari (espressosi anche nella decisione anteriore al congresso di Lione, di non entrare nell'esecutivo nazionale del PCI e di non accettare la vicepresidenza dell'Internazionale), dà quasi alla sconfitta di Bordiga il carattere del suicidio politico, ed alla lotta senza quartiere contro di lui (cioè contro un uomo veramente d'acciaio non disposto a nessuna mediazione e deciso a spingere la lotta sino in fondo se ciò fosse stato utile al suo punto di vista), la legittimità che è propria di ogni difesa estrema di un organismo collettivo e di classe. «Al di sopra di ogni cosa, scrive l'Unità di allora, deve porsi l'interesse del partito, per il quale dobbiamo essere pronti in ogni momento ad affrontare ogni sacrificio» (p. 222). Il «formalismo organizzativo» (cioè la tendenza di Gramsci ad autonomizzare le sovrastrutture, scoperta da Bordiga sin dalla polemica sui consigli di fabbrica), l'importanza dell'operaio in carne ed ossa come forza politica e l'identificazione della linea da perseguire con la politica che a tale partito realmente operaio dà più potere nella specifica e condizionata situazione storica: ecco il segreto della forza storica del PCI, partito garantito e garante di fronte alla classe per i primi due aspetti mai attaccabile dall'esterno per queste due stesse ragioni, e tuttavia assumibile, per il terzo aspetto, come termine di un confronto strategico che va condotto con grande chiarezza ideologica e con il massimo di volontà unitaria.

 

Franco Livorsi

 

Mondo Nuovo, 16 gennaio 1972