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archivio > Articoli su Bordiga>Massimo Caprara, Le sue esecrate verità (Il Giornale, 9 agosto 1990)

aggiornato al: 28/12/2010

Il Giornale, 9 agosto 1990

Proponiamo in questo fine d'anno un bell'articolo di Massimo Caprara di cui nel giugno del 2008 avevamo già pubblicato I migliori di Bordiga (Il Giornale nuovo, 23 febbraio 1988).

Massimo Caprara fu, per circa un ventennio assistente e segretario di Togliatti, deputato del PCI, a partire dal 1953, per quattro legislature. Nel 1969 uscì dal partito con chi costituì il gruppo di "Il manifesto".

Nei suoi ultimi anni, era nato nel 1922 e morì nel 2009, riscoprì "la presenza irresistibile di Dio" e divenne un cattolico convinto.

 

 

Gli scheletri nell'armadio del dissenso comunista: Amadeo Bordiga

Le sue esecrate verità

 

«Dove va la Russia?», chiese con severità il delegato italiano. «Procede verso il socialismo o si arresta?  Le presenti rotture interne nell'Urss finiranno con il frenare lo sviluppo del movimento proletario internazionale? E perché mai non dovremmo discuterne anche noi? Come singole sezioni dell'Internazionale Comunista possiamo e dobbiamo intervenire» egli concluse. Disse il suo nome: Amadeo Bordiga, delegato del partito comunista d'Italia al VI plenum dell'Esecutivo allargato, una sorta di congresso del neonato Komintern, svoltosi il 17 febbraio 1926. Tacque Togliatti, capo della delegazione italiana, già a Mosca come suo rappresentante.

«Queste domande non mi sono state mai rivolte. Non avrei creduto che un comunista potesse rivolgermele», esordì Stalin, che aveva appena liquidato i suoi interlocutori Kamenev e Zinovev e concluse: «Dio vi perdoni di averlo fatto». Continuando, ammise: «Da un punto di vista formale e di procedura certamente è vero che non è del tutto regolare che l'Allargato non decida esso stesso di non affrontare la questione russa. Ma bisogna badare alla sostanza delle cose. La posizione  del partito russo nell'Internazionale è una posizione privilegiata. Noi abbiamo il privilegio di aver vinto la rivoluzione» disse Stalin. E minacciò: «Se si riapre la questione, si sarà costretti a togliere dalla direzione il compagno Zinovev. Ora questa cosa non vi è nessuno che la desideri». Zinovev sarà fucilato il 25 agosto del 1936 a Mosca, dopo la condanna a 10 anni di lavori forzati.

«La brutalità sostanziale della replica non è nuova», annoterà Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano edita nel 1969. Bordiga insistette: «Faccio delle riserve su quanto è stato detto. Qual è il gruppo dirigente nel partito russo? E' la vecchia guardia leninista? Ma dopo i recenti episodi è chiaro che questa vecchia guardia può dividersi. La buona soluzione è, allora altrove. Bisogna basarsi, anche per le cose russe, su tutta l'Internazionale, su tutta l'avanguardia proletaria mondiale. Ma la nostra organizzazione è simile ad una piramide che riposa sulla sua cima e il suo equilibrio è troppo instabile. Bisogna capovolgerla», sottolineò.

«Avete sentito tutti Bordiga e sembra che abbiate una certa simpatia per lui», intervenne Togliatti. «Pone i problemi in modo sincero e pare avere la forza di un capo», egli concesse. «Ma noi non crediamo sia un grande capo rivoluzionario», dichiarò. Gramsci riprenderà gli argomenti di Bordiga nella lettera che indirizzerà a nome dell'ufficio politico del partito italiano, nell'ottobre successivo, «quando la lotta intestina dei bolscevichi avrà segnato nuovi drammatici capitoli». Umberto Terracini, membro della direzione comunista e presidente dell'Assemblea costituente, dalla quale uscì il volto istituzionale della Repubblica italiana, sosterrà alcune delle ragioni fondamentali di Bordiga in nome dell'autonomia del comunismo internazionale dall'egemonia di Mosca. Nel 1947, infatti, egli si opporrà nuovamente alla «preponderante autorità del partito russo». Non venne ascoltato. Togliatti aveva provveduto a far espellere Bordiga dal partito nel 1930. Sua fu la proposta esplicita, irremovibile.

Su questi nodi, politici e umani, si aggrovigliò negli anni la vicenda di Amadeo Bordiga, uno degli scheletri maggiori nell'armadio del dissenso comunista. Gli altri furono Angelo Tasca, estromesso nel 1929 come «opportunista marcio, capitolatore, ultima recluta della controrivoluzione», secondo la fiorita invettiva di Togliatti, e Ignazio Silone, che scrisse sulle sue esperienze nel '30 i romanzi Fontamara, epopea della servitù contadina, e Uscita di sicurezza nel '49.

Rispetto a loro, Bordiga rappresentò l'altra radice dell'utopismo rivoluzionario europeo, sensibile al primato delle ragioni nazionali, ancorato all'operaismo emergente della rivoluzione industriale, liberata dal luddismo che assieme a nuovi potenti aveva creato nuovi spossessati. Bordiga militò ostinatamente dalla parte di costoro, con inflessibile ostinazione esclusiva, anche quando le sconfitte subite avrebbero suggerito un sistema di alleanze aperto alle altre componenti sociali e politiche del fronte antifascista.

Per questo suo attaccamento «alla incrollabile verità del processo rivoluzionario» egli guadagnò un'eco vasta e carismatica nel profondo dell'ideologia classista italiana e negli uomini che la professarono: operai di fabbrica, intellettuali del radicalismo universitario e sindacale. Vi apportò, anche durante gli anni del parlamentarismo togliattiano, quell'idea alternativa di rinnovamento della società tutta intera come autoemancipazione sociale, come rifiuto di miti importati dall'Est, condanna dello stalinismo e del centralismo autoritario . Continuò ad essere l'altra campana, dai rintocchi esecrati. Tutto vissuto con personale distacco da ogni forma di blandizie e di accomodamento, anzi con esemplare rudezza di opinioni e scelta di posizioni. Arrestato, venne condannato dal Tribunale speciale fascista e poi, isolato dai comunisti, rimase una meteora a tratti luminosa, infine riemergente ed ora irrisolta perché poco studiata né approfondita.

A vent'anni dalla sua morte (l'anniversario è di questi giorni), l'«Unità» ha parlato per la prima volta pacatamente di Bordiga nel numero recentissimo del 24 luglio. Ha riportato una frase, forse l'unica completamente positiva, di Togliatti nel '28 («egli, Bordiga, avrebbe potuto svolgere un grande ruolo storico, avrebbe detto la verità a tutti noi»), ma l'articolo non è riuscito ad andare al di là di una rievocazione finalmente bene educata. Togliatti stesso, d'altra parte, aveva accennato ad un possibile riesame, nella introduzione da lui scritta alla «Formazione del gruppo dirigente del Pci», ossia del Centro antibordighiano che diresse per sempre il Pci. Bastano questi pochi indizi per ricollocare Bordiga al ruolo che egli ebbe come fondatore primo del Partito comunista italiano?

Alla maggioranza comunista, Bordiga oppose una sua autentica diversità ideale e di vita. Di sé, Togliatti scrisse in una lettera del 25 luglio '23 diretta a Terracini: «Ho visto la lettera dell' "Avanti!" che mi attacca. Io personalmente me ne frego perché da quando sono entrato nel partito e non solo ma in generale ho per principio di non tenere in nessun conto le opinioni che si hanno di me. Soltanto io so se sono in malafede oppure no e nel giudizio degli altri non trovo motivi mai né di compiacimento né di dispiacere»: che costituisce una gelida confessione di debolezza velata di cinismo.

In Bordiga si manifestava invece una concezione d'impronta idealista di «solitudine contro il volgo» formato dalla maggioranza del partito e dell'Internazionale. Si affermava un concetto dell'iniziativa politica come agire libertario non solo contro «i metodi del papa» (come chiamava i dirigenti del Komintern), ma come paziente conquista individuale e culturale dell'operaio spossessato, «vittima e becchino dell'industrialismo». Quel suo attenersi passionalmente al primato delle idee, quel suo disprezzo delle mediazioni opportuniste furono in Bordiga, assieme, un limite elitario ed anche una tensione morale. Fieramente anticapitalista, negatore d'ogni spiritualismo del capitale, pensatore antagonista s'attenne ad un fideistico lottare per il rovesciamento della società borghese della quale fu figlio colto e positivo, come ingegnere edile d'alto livello.

Ebbi la ventura di conoscerlo come stimato progettista di cemento armato. Negli anni sessanta, come tecnico assolutamente indipendente, era stato chiamato a far parte della Commissione per il piano regolatore. Mi avvicinò dopo una manifestazione alla sala dei baroni nel Maschio Angioino di Napoli e accettai un incontro al bar Caflish in via Roma. Ci andai col batticuore, era pur sempre  «il traditore Bordiga».

Trasse dalla borsa una foto sgualcita, conservata con cura. La guardai: una coppia di freschi sposi (lei in abito bianco di tulle, lui in marsina) passa sotto una guardia d'onore formata dai pugnali sguainati dei Moschettieri del Duce, in divisa nera con borchie e teschi sulle mostrine. Sotto, era stampata una didascalia sommaria: «La figlia del traditore Bordiga, complice di Mussolini».

«E' uno sporco fotomontaggio con il quale il partito stalinista ha cercato in questi anni di denigrarmi presso i miei compagni», mi disse asciutto. Torno a raccontare l'episodio con l'emozione per una colpa da me non commessa, ma da me annegata, allora nel fondo della coscienza.

 

Massimo Caprara

 

Il Giornale, 9 agosto 1990