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archivio > Articoli su Bordiga>Mario Paone: Amadeo Bordiga, l'Ajace del comunismo italiano (La Nuova Europa, settembre 1970)

aggiornato al: 02/12/2007

La Nuova Europa, settembre 1970

Grazie alla gentilezza di un lettore, e questa è una delle cose che ci proponevamo cioè -dalla lettura di quanto andiamo pubblicando- sollecitare qualcuno a farci pervenire altro materiale che possa interessare, possiamo mettere a disposizione di chi ci legge questo articolo pressoché sconosciuto apparso sull'altrettanto sconosciuto mensile «La Nuova Europa» che uscì agli inizi degli anni settanta.

Più noto può essere l'autore del testo e cioè Mario Paone, avvocato e giornalista, che conosceva Bordiga ma soprattutto Giorgio Amendola. Fu proprio con Amendola (acceso e maniacale accusatore di una ipotetica collusione di Bordiga con il fascismo)  che Paone prese le difese di Bordiga, come è citato nel libro Amadeo Bordiga La sconfitta e gli anni oscuri (1926-1945): «A me una volta Bordiga disse: "Caro Paone, ricordatevi che fascismo e nazismo sono aspetti del tutto contingenti e transitori del capitalismo e della conservazione borghese, e che il nemico da battere è sempre l'imperialismo americano"» [Lettera di M.Paone a G. Amendola del 31 ottobre 1970].

Per chi non è un consumato frequentatore di Omero e degli eroi dell'Iliade diciamo che Aiace a cui Bordiga, nel titolo, viene paragonato è il più valoroso guerriero dell'esercito di Agamennone nella guerra contro Troia, un eroe umano non protetto dagli dei: onesto, forte e coraggioso, l'unico degno di ricevere le armi di Achille, dopo che il "pelide" sarà ucciso (per intervento divino le armi di Achille saranno poi consegnate a...Ulisse) e dal tragico destino.

Possediamo un altro articolo di Mario Paone su Bordiga che proporremo prossimamente.   

 

 

 

AMADEO BORDIGA,

l' Ajace del comunismo italiano

 

Come si può tentare di distruggere perfino il fondatore di un partito comunista se questi non è sempre disposto a dire di sì - «La protezione della Polizia» - La morte lo ha raggiunto a Formia, pressoché povero - Lo «sdegnoso rifiuto» agli americani che intendevano strumentalizzarlo contro il P.C.I.

 

Formia. Via Appia. Nenni, Gramsci, Amadeo e Ortensia Bordiga. Singolare incontro di nomi illustri della moderna sinistra italiana all'ombra dei ruderi dell'antica Roma repubblicana ed imperiale, che in questo tratto carico di storia e di memorie costellano l'antica regina viarum.

Ma l'incontro è puramente casuale. Soltanto Ortensia De Meo, la prima moglie di Bordiga, sua antesignana e poi fedele compagna di lotte - chiamata ai suoi tempi la Pankhurst italiana - era nativa di questi luoghi. Gli altri tre vi si sono ritrovati in circostanze e in tempi diversi.

Chi percorra l'Appia scendendo dalle gole di Itri e arrivando in vista delle acque del golfo di Gaeta troverà, sulla sua destra, subito dopo la cosiddetta tomba o torre di Cicerone, e a ridosso della spiaggia di Vendicio, il formiannn di Pietro Nenni, ossia la casa di campagna dove il leader socialista, oltre a trascorrere una buona parte dell'estate, usa recarsi a meditare e a raccogliere le idee nei momenti di crisi politica o di partito.

Oltrepassato il centro di Formia e sempre seguendo l'Appia, ecco quasi a strapiombo sul mare, l'ex clinica Cusumano, ossia l'edificio - contrassegnato da una lapide commemorativa - nel quale, dal carcere di Turi e ormai malandato in salute, venne trasferito Antonio Gramsci. Quando giunse sul posto, Gramsci vi trovò il generale Capello, anche lui prigioniero del regime; ma sembra che incontrandolo non lo degnasse di più che un gelido saluto. Prima infatti di essere coinvolto nell'attentato Zaniboni, Capello era stato lo «stratega» della marcia su Roma, e neppure gli eventi successivi, l'arresto, il processo, la pesante condanna, avevano potuto riscattarlo agli occhi del suo compagno di prigionia da quel peccato originale.

La cella assegnata a Gramsci guardava sul golfo, in vista della lontana isola d'Ischia, ma la piccola finestra fu munita di solide e fitte sbarre metalliche. Il regime temeva che ancora una volta un «uomo del mare» potesse attuare per il grande prigioniero la gesta temeraria e fortunata che pochi anni prima, per mano di Gioacchino Dolci e della sua fragile barca aveva liberato dal confino di Lipari Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti.

Quel luogo era già celebre negli annali d'Italia perchè - come si vede da un'antica stampa trovata dal generale Mario Caracciolo tra le carte dello Stato Maggiore - vi furono piazzate le artiglierie piemontesi, che nel 1860 batterono in breccia la fortezza di Gaeta, ultimo rifugio del re «Franceschiello».

A quei ricordi ormai ultracentenari dovevano dunque giustapporsi quelli del nuovo Risorgimento italiano. La lapide di cui abbiamo dianzi fatto cenno venne murata qualche giorno dopo il 27 aprile 1945 - ottavo anniversario della morte di Gramsci - nel clima incandescente della Liberazione dell'Alta Italia. La cerimonia fu preceduta da un forte discorso di Mario Scoccimarro, allora ministro delle Terre Liberate.

La lapide reca:

"Qui / Antonio Gramsci / Capo e fondatore del P.C.I. / visse in prigionia /per criminale persecuzione fascista / facendo olocausto della vita / a servizio del Popolo e dell'Italia".

Ancora poche centinaia di metri e sempre sulla destra, nella stretta che separa dall'Appia il litorale di Acquatraversa (dove ormai non si rinvengono più quelle miriadi di piccoli frammenti multicolori, avanzi marmorei di antiche ville romane, che vi trovò Goethe nel suo viaggio verso Napoli), s'intravede la casa ad un solo piano dove l'ottuagenario ingegnere Bordiga (era nato a Resina - ora ridiventata Ercolano - nel 1899) ha voluto chiudere in silenzio e in solitudine i suoi giorni assistito dalla seconda moglie Antonietta - sorella minore della premorta Ortensia e da lui impalmata due anni or sono - dai figli Oreste ed Alma e da pochi intimi. Il decesso è avvenuto esattamente nella notte tra giovedì 23 e venerdì 24 luglio.

L'ultimo desiderio manifestato dal morente era che si tenesse quanto più possibile celato il suo trapasso: pulvis et umbra. Ed infatti, fino alla sepoltura avvenuta il successivo sabato 27, in un loculo del vicino cimitero di Castellonorato (un tempo piccolo comune autonomo, ora frazione di Formia) non se ne seppe nulla.

Poi la sera qualcuno incontrò il cognato e fedelissimo di lui Peppino De Meo, vecchio genius loci, che durante la prigionia di Gramsci era riuscito talora a rendere possibile qualche clandestino scambio di biglietti di saluto tra i due massimi esponenti del comunismo italiano dei tempi eroici (il noto, casuale incontro tra Gramsci e Bordiga sulla via Appia non restò dunque isolato).

Il resto è risaputo. Ora su quel loculo una mano pietosa ha scalfito le iniziali A. B., che a malapena si intravedono sotto una coltre di fiori rossi. Accanto un altro loculo tuttora aperto attende i resti di Ortensia, che da quindici anni riposa a Napoli nel cimitero di Poggioreale. Di questa ardente ed indomita figura di donna, che è passata nella tradizione del P.C.I. come la «terribile» Ortensia e che meriterebbe un capitolo a parte, ricorderemo un solo episodio. Mentre il marito era al confino di polizia, il «duce» incaricò personalmente un noto penalista della capitale di svolgere presso di lei una ... delicata missione politica. Il colloquio naturalmente andò male. Alla fine Ortensia perdette la pazienza e, alzatasi in piedi, tagliò corto dicendo in tutte lettere al suo interlocutore: «Dite a Mussolini che abbia pure il coraggio di alzare le sue forche. Noi le saliremo».

Quando muore un grande rivoluzionario - così in sintesi scrisse Lenin - i suoi antichi nemici si impadroniscono della sua memoria, la agitano come quella di un santone inoffensivo. Forse Amadeo Bordiga potrà sottrarsi ad un simile destino, malgrado siano trascorsi cinquanta anni dal momento culminante della sua battaglia politica, malgrado che ne siano passati quaranta dalla sua espulsione dal P.C.I., decretata da molto lontano, e dal cosiddetto suo ritiro «a vita privata», anzi alla sua professione di «ingegnere». Nella pur larghissima eco che la sua scomparsa ha suscitato, si sono incrociati i ricordi degli antichi timori degli uni e i residui, sia pure attenuati, delle inveterate preclusioni degli altri.

Indubbiamente Bordiga era considerato il primo ingegnere di Napoli, dove, fra l'altro, in questo dopoguerra, è stato per lunghi anni il presidente elettivo di quell'Ordine professionale (ed è noto che a Napoli tali cariche vengono conferite, per generale consuetudine, prescindendo dalla colorazione politica dei candidati). Tuttavia, pur avendo vissuto sempre modestamente, non è morto nell'abbondanza. Egli usava infatti commisurare i suoi onorari non all'oggettivo, universalmente riconosciuto valore dei suoi elaborati, ma al breve tempo che, in generale, a causa della sua formidabile preparazione tecnica e della sua eccezionale rapidità di cerebrazione e di sintesi, essi gli costavano così nell'esercizio della professione, come già nella politica attiva, e, ancora in quest'ultimo ventennio, dal lavoro ideologico, svolto - sia pure all'infuori del P.C.I. - secondo la propria interpretazione del marxismo e della situazione politica italiana ed internazionale [1].

Il suo disinteresse, del resto, era già stato provato «in foco vivo», allorché dalle carceri fasciste dei primi anni del regime, egli rinunciava ai sussidi del partito, in favore di un compagno più bisognoso e più tardi, dal confino, a quelli del Ministero dell'Interno [2].

Sono cose che, in omaggio alla verità, vanno dette o ricordate, senza indulgere ad intendimenti di carattere agiografico che, stante la personalità dello scomparso, sarebbero del tutto fuori luogo.

Ma non è neppure esatto che Amadeo Bordiga in seguito alla sua espulsione dal P.C.I. si fosse definitivamente allontanato dalla politica e che pertanto la sua vita da allora sia stato un fatto puramente «privato» come è stato scritto in un recente articolo, pur condotto con storica obbiettività.

Venne bensì arrestato, mentre era a capo del nuovo partito sorto dalla scissione di Livorno, processato, confinato, nuovamente processato e ancora una volta confinato per lunghi anni - salvo una breve parentesi che gli consentì di partecipare al terzo congresso del P.C.I. tenutosi a Lione nel gennaio 1926 - indi sottoposto a rigorosa e mai cessata sorveglianza di polizia sino alla fine del regime [3] anche se lasciato libero nei suoi movimenti (ormai era diventato un generale senza soldati, profeta disarmato dagli uni e dagli altri). Ma, quando alcuni anni dopo la caduta del fascismo, se ne ristabilirono le condizioni, riprese e proseguì senza posa la sua propaganda ideologica, giungendo perfino a formare, in progresso di tempo, alla dichiarata sinistra del P.C.I., una nuova formazione politica, il partito comunista «internazionalista». Di tale partito, in verità,  ignoriamo la effettiva consistenza numerica ed organizzativa, mentre non può esserne disconosciuta l'intensa attività ideologica condotta sotto la denominazione di «Propaganda Comunista».

 

L'ambiente e l'uomo

Tuttavia quelle numerose  pubblicazioni sono state dallo stesso autore o ispiratore condannate a una circolazione probabilmente ristretta, giacché ad esse Bordiga non volle mai premettere il proprio nome e cognome. Non perchè, beninteso, egli amasse nascondersi sotto l'anonimo, ma perchè le considerava frutto «non già di idee o opinioni personali», ma come «testi di partito cui non si addice nessuna etichetta di persona e che non solo non comportano ma escludono la borghese e mercantile rivendicazione della peggiore proprietà privata, quella intellettuale» [4]. Chi rilegga ora, con animo sereno, sine ira ac studio, quegli scritti, non potrà sottrarsi alla sensazione che, pur nella vivacità della forma, essi siano piuttosto la manifestazione di una amarezza paterna verso l'antico partito, che non un appello alla secessione interna.

In verità, come non aveva l'animo di un Cincinnato, Amadeo Bordiga non aveva neppur quella di un Coriolano ( e meno ancora, occorre soggiungere, quella di Mussolini o di un  Bombacci!...) A dar vita all'anzidetto movimento politico e culturale, egli attese che gli americani avessero definitivamente lasciato il Paese. I tentativi, infatti, spiegati su di lui da agenti americani, subito dopo la liberazione, per fargli costituire, sotto il suo sempre prestigioso nome, un nuovo partito destinato nei loro intenti a «gettare un cuneo» (come amava icasticamente  esprimersi Togliatti in casi del genere) in mezzo alle file del P.C.I., furono freddamente e sprezzantemente respinti.

Gli americani, nel tentare quegli approcci ignoravano sicuramente che nell'antico leader  del P.C.I. l'anticapitalismo, l'antimperialismo e di conseguenza l'antiamericanismo, non erano mai stati motivi di contingente polemica, ma la sostanza stessa della sua formazione culturale ed ideologica, rimasta sempre ortodossamente marxista. Tale formazione culturale ed ideologica era in lui ben profondamente radicata, era anzi il presupposto di quell'antistalinismo d'avant la lettre, che nel 1930 proprio al suo ritorno dal confino fascista, gli valse l'espulsione dal partito. Da allora il termine astratto «bordighismo» tende nella letteratura del partito, a sostituirsi al nome e cognome dell'uomo, alla sua vivente figura di comunista e di rivoluzionario. Toccherà proprio a Palmiro Togliatti, sei anni dopo la caduta dello stalinismo, di riaprire cautamente il discorso sull'uomo e sul suo storico, decisivo apporto alla fondazione del P.C.I., del nuovo vero partito della classe operaia[5].

Più tardi, il discorso è stato ripreso dallo storico ufficiale del partito, il prof. Paolo Spriano, il quale, avendone potuto consultare gli archivi, è stato in grado di ricostruire con obbiettività quel tormentato periodo [6].

Orbene, da quell'accurata esposizione dei fatti e delle interne vicende del partito, sembra potersi ricavare chiaramente che non fu Bordiga ad allontanarsi da esso,  bensì il partito ad allontanarsi da lui , e cioè da quei 21 punti  della Terza Internazionale, che nel 1921 avevano indotto la frazione comunista «pura» nel congresso di Livorno del Partito Socialista Italiano, ad innalzare lo scarlatto stendardo della secessione non soltanto nei confronti della frazione socialdemocratica, ma anche di quella massimalista (che allora si chiamava anche «comunista unitaria»). Infatti la situazione politica interna dell'U.R.S.S., durante la malattia e dopo la morte di Lenin (gennaio 1924), era andata radicalmente trasformandosi. Le redini effettive del potere, nel paese della Rivoluzione d'ottobre, erano passate nelle mani di Giuseppe Stalin, e la contemplazione del cosiddetto «riflusso» della situazione rivoluzionaria in Europa, e specialmente nella grande e vicina Germania, aveva indotto Stalin e il partito comunista dell'U.R.S.S. a mutare decisamente di prospettiva: non più l'espansione della rivoluzione in Europa bensì la «edificazione socialista in un Paese» o «in un solo paese». La rivoluzione in Germania e in Europa era rinviata a tempi migliori e le ragioni ideologiche e politiche che avevano presieduto in Italia alla scissione di Livorno dovevano essere accantonate. Dovunque fosse possibile, occorreva mirare ora alla costituzione di ««fronti popolari», ossia di alleanze politiche ed elettorali con quegli altri partiti di sinistra, o tali dichiarantisi, con i quali pochi anni prima a Livorno la frazione comunista, sotto la guida di Bordiga ed in nome dei 21 punti della III Internazionale, aveva rotto procedendo alla costituzione del nuovo partito.

Bordiga non seppe e non volle rassegnarsi ad un tale brusco capovolgimento di indirizzo, che probabilmente spiega perchè al suo definitivo ritorno dal confino, invitato a riprendere la lotta trasferendosi all'estero (probabilmente nell'Unione Sovietica) egli vi si sia rifiutato, incorrendo nell'espulsione dal partito.

Nei colloqui che, tra un periodo di carcerazione o di confino e l'altro, egli ebbe a Mosca con Stalin non fece mistero del proprio punto di vista. In effetti, Bordiga era convinto - ed in ciò il suo pensiero non era lontano da quello di Trotski - che occorresse fare ogni sforzo, sul piano della solidarietà comunista internazionale, per incoraggiare la rivoluzione proletaria in Germania: paese che, fortemente industrializzato e civilizzato (il nazismo era ancora ben lontano dal potere), egli considerava marxisticamente maturo per la rivoluzione, malgrado i primi insuccessi. Era poi evidente nel suo pensiero marxistico , leninista ed internazionalista che, ripiegandosi su sé stessa, la Russia della Rivoluzione di ottobre potesse orientarsi verso una forma sia pur palliata di...neosocialsciovinismo: ossia di un temuto fenomeno controrivoluzionario.

Racconta comunque Spriano nella sua più volte ricordata opera che Stalin, manifestamente contraddetto ed irritato dalle domande e dai quesiti che Bordiga gli poneva, ribattesse: «Non avrei mai immaginato che da parte di un comunista mi si potessero fare simili domande. Dio vi perdoni». Lui Stalin non lo perdonava di certo, e non lo avrebbe perdonato mai più.

Intanto le esigenze vitali del partito in Italia ed un nuovo arresto di Bordiga imponevano una diversa guida che venne interinalmente affidata a Gramsci in attesa di un futuro congresso (che fu poi quello del gennaio 1926 a Lione, il terzo dalla fondazione del partito). Ma poiché Gramsci in quel periodo stette lungamente all'estero, prima nell'U.R.S.S. e poi in Austria, le leve di comando passarono praticamente sin da allora nelle mani di Togliatti. Al proprio ritorno in Italia, a Gramsci non restò molto tempo per la direzione effettiva del partito giacché poco dopo il congresso di Lione venne arrestato insieme con l'intera leadership del P.C.I. - ad eccezione di Togliatti, di Grieco e di qualche altro che fecero in tempo a riparare o a trattenersi all'estero. Gramsci non doveva mai più riacquistare la libertà essendo morto -come dianzi abbiamo ricordato - il 27 aprile 1937, pochi giorni prima della scadenza della pena infertagli dall'ormai costituito tribunale speciale [7].

Insieme con lui nel famoso «processone» del 1928, furono condannati a gravissime pene detentive gli altri dirigenti del partito: Terracini, Scoccimarro, ecc. i quali dovettero poi attendere la caduta del regime per ritornare a piede libero.

L'avvento di Togliatti, con la sua rapida ascesa in seno all'Internazionale Comunista, segnò ad ogni modo la fine di Amadeo Bordiga quale dirigente del partito malgrado che, pur avendolo messo in minoranza nel congresso di Lione, Gramsci avesse voluto farlo rimanere nel Comitato centrale. Cinque anni dopo, al ritorno dal confino -come abbiamo già accennato- Bordiga, preso tra due fuochi, veniva espulso dal partito. Cessava così la grande diuturna battaglia politica e rivoluzionaria dell'uomo che all'indomani della Rivoluzione di ottobre aveva a Napoli gettato le fondamenta del futuro partito comunista, creando un periodico denominato tout court «Il Soviet» (una parola che in quei tempi, per dirla come John Reed, faceva ancora   «tremare il mondo») e che intorno ad esso era andato rapidamente raccogliendo i nuclei più avanzati della classe operaia italiana, prima ancora che a Torino fosse fondato da Gramsci e dal suo gruppo L'Ordine Nuovo ; dell'uomo cioè che a Livorno il 21 gennaio 1921, alla testa dell'intera frazione comunista, aveva apostrofato le altre due frazioni proclamando che col loro voto esse si erano contrariamente a quanto era stato stabilito nel precedente congresso di Bologna, poste fuori dalla Terza Internazionale.

«I comunisti, annota il resoconto stenografico di quel drammatico e memorabile XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, escono quindi dalla sala cantando l'Internazionale» E un momento dopo il Prof. Adelchi Baratono: «La tesi di Bordiga è tesi ideale, che viene dall'ascetismo»; anche se poi, correggendosi, l'autorevole rappresentante della frazione massimalista soggiungeva che non si trattava tanto di ascetismo ideale, quanto di ascetismo...cerebrale (sic).

 

La nascita del P.C.I. tra storia e leggenda

A questo punto il lettore che ci abbia fin qui pazientemente seguiti ha bene il diritto di domandare: «Ma insomma chi è stato il fondatore, il leader originario del Partito Comunista Italiano (o «Partito Comunista d'Italia» come allora si chiamava)? E' stato Gramsci o è stato Bordiga?» Si può rispondere brevemente che altro è la storia, altro è la leggenda; quella leggenda che, come autorevolmente riconosceva Giorgio Amendola in un suo scritto su «Gramsci e Togliatti» [8], si era venuta formando intorno alla luminosa figura di colui che era morto prigioniero del regime, dopo essere stato sottoposto ad un lento martirio durato undici anni. Non certamente Amadeo Bordiga che con quel grande aveva mantenuto affettuose relazioni personali - attestate anche dalla seconda edizione delle «lettere dal carcere» dopo gli infelici tagli apportati alla prima -  si sarebbe mai fatto avanti (proprio lui che detestava perfino la proprietà letteraria!), per rivendicare una priorità del genere nei confronti del  martire. Il problema storico è però diverso, e tra gli altri che hanno interloquito in proposito, dev'essere annoverato lo stesso prof. Spriano, già con quell'eloquente sottotitolo del primo volume della sua «Storia»: «Da Bordiga a Gramsci».

Occorre però distinguere tra la fondazione del partito e la sua originaria leadership. Alla fondazione del partito, che fu la conseguenza prevista ed immediata della scissione di Livorno, giacché i comunisti si riunirono quella stessa mattina del 21 gennaio al teatro San Marco della stessa città, si giunse attraverso la sostanziale convergenza di posizioni tra l'organizzazione formatasi intorno al bordighiano «Soviet» e il gruppo del gramsciano «Ordine Nuovo». Preminente fu, dal punto di vista pratico e organizzativo, l'apporto dell'organizzazione bordighiana. Giuseppe Berti, uno dei massimi esponenti del P.C.I. nel tempo dell'emigrazione politica, e non sospetto né di bordighismo, né di deviazionismo di sinistra, così scriveva nel 1935, - cinque anni dopo l'espulsione di Bordiga dal partito - in un articolo intitolato: «Il gruppo del Soviet nella formazione del P.C.I.»: «Bordiga è già il capo, l'ispiratore principale della frazione, il suo organizzatore... tutto il lavoro di organizzazione fu fatto da Bordiga che, di costituzione robustissima, passava le intere notti a tavolino, stupendo quanti gli stavano intorno per la sua straordinaria resistenza al lavoro e per la sua attività febbrile».

Ma poiché tra Bordiga e Gramsci, malgrado le inevitabili divergenze tra esseri pensanti (e come pensanti) su questioni particolari o marginali, non vi era, né vi fu mai dopo, né invidia, né gara di potere in seno al partito, vale la pena di ricordare che fu proprio l' Ordine Nuovo, tre giorni prima dell'apertura del Congresso di Livorno e cioè nel numero del 12 gennaio 1921, a presentare ai lettori il capo designato del nuovo partito, attraverso una curiosa vignetta in due tempi - quasi un piccolo filmato - in cui si faceva il punto della situazione ormai chiaramente delineatasi in seno al partito socialista.

Nel primo tempo si vedeva G.M. Serrati in equilibrio sopra una passerella retta da un treppiedi, e con quasi impercettibile inclinazione verso sinistra (Serrati, allora direttore dell'Avanti, era il maggior esponente della corrente massimalista o «comunista unitaria», cioè contraria alla scissione); a sinistra vi era Bordiga (riconoscibile dal «Soviet» che portava sotto il braccio e dalla leggenda comunisti ai suoi piedi; a destra, Filippo Turati («La critica sociale», socialdemocratici).

Nel secondo tempo, sparito Bordiga (ossia verificatasi la preconizzata scissione) e rottosi l'equilibrio, la passerella pencola decisamente verso destra e Giacinto M. Serrati cade nelle braccia aperte di Turati. Il presagio dell' Ordine Nuovo non doveva però realizzarsi, giacché nel successivo congresso del P.S.I., tenutosi poco prima della «marcia su Roma», i massimalisti guidati dallo stesso Serrati, tagliarono a destra, espellendo Turati e l'intera frazione socialdemocratica, che da allora prese il nome di «partito socialista unitario».

Seguiamo ora, rapidamente, i lavori congressuali che furono aperti sotto la presidenza dell'on. Bacci, massimalista, deputato al parlamento e noto professore universitario di diritto civile. Per brevità, stante l'oggetto di questo scritto, ci limiteremo agli oratori comunisti.

Gramsci, nell'ordine del giorno dei lavori, figurava come co-relatore, per la frazione comunista, di un argomento importante, ma particolare (il famoso movimento torinese dei comitati o consigli di fabbrica). Nella discussione assembleare tuttavia non intervenne. Il fuoco di fila, per i comunisti, fu aperto, a nome della Federazione Giovanile, da Tranquilli (il futuro Ignazio Silone), il quale con brevi ed infiammate parole venne subito al nodo del problema. Rivolgendosi soprattutto ai turatiani ed alludendo ai socialdemocratici tedeschi che al governo della Germania avevano soffocato nel sangue il movimento degli «Spartachiani» egli esclamò: «Noi bruceremo il fantoccio dell'unità, come la gioventù russa, un anno fa, bruciò il fantoccio di Scheidemann». Graziadei, che pur sosteneva una sua propria tesi lievemente sfumata verso i massimalisti, dichiarò senza ambagi che tra l'unità del partito e quella della Terza Internazionale Comunista, la sua scelta era senz'altro per quest'ultima. Si susseguirono altri oratori comunisti e tutti, ad eccezione di Bombacci che prese una solenne «vongola» [9], furono all'altezza della situazione. La mozione comunista portava le firme di Bordiga e di Terracini [10].

Parlò per primo, nello svolgimento della mozione, il futuro presidente della Costituente, allora venticinquenne e già da più di un anno - ossia al precedente congresso di Bologna - membro della Direzione Centrale del Partito Socialista, in rappresentanza, si intende della corrente o frazione comunista. Il suo martellante intervento, in cui cominciò col richiamare il Congresso alla coerenza verso le deliberazioni del precedente Congresso di Bologna (ed in quella sede era stata votata in linea di principio l'adesione del Partito Socialista Italiano alla III Internazionale Comunista) venne giudicata dagli osservatori come un modello di dialettica assembleare. Terracini, com'è noto, apparteneva al gruppo dell' Ordine Nuovo, ma in seno a questo era probabilmente il più vicino alle posizioni del gruppo del Soviet. Parlò infine Bordiga, e il suo discorso apparve agli osservatori «diritto e penetrante come una spada». La parola d'ordine da lanciare alle masse era: «dalla guerra nazionale degli Stati alla guerra civile del proletariato», come conseguenza del «valore socialista prodotto dalla guerra e dalla rivoluzione russa». Nella sua parte conclusiva, dopo di aver accennato  agli antichi ormai scomparsi pionieri della sinistra socialista italiana, egli esclamò: «Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro partito, o compagni!». Indi, una affettuosa allusione alla tendenza «ordinovista» nel seno della comune volontà rivoluzionaria: «Gramsci può essere su falsa strada, può seguire una tesi erronea quando io sono su quella vera, ma tutti lottiamo ugualmente per l'ultimo risultato».

Avvenuta la scissione e costituitosi il Partito Comunista d'Italia nella sala del teatro San Marco, si procedette, come era logico, alla elezione del Comitato centrale e dell'Esecutivo (l'odierno ufficio politico). All'unanimità il primo fu composto di 15 membri: Belloni, Bombacci (purtroppo!), Bordiga, Fortichiari, Gennari, Gramsci, Grieco, Marabini, Misiano, Parodi, Polano (questi in rappresentanza della Federazione giovanile), Repossi, Sessa, Tarsia e Terracini. A far parte dell'Esecutivo furono chiamati: Bordiga, Fortichiari, Grieco, Repossi e Terracini. L'indirizzo di saluto delle donne comuniste venne porto da Ortensia Bordiga. Infine Amadeo Bordiga annunciò che la sottofrazione astensionista del partito socialista (sottofrazione che, ove mai fosse sopravvissuta in seno al nuovo partito, sarebbe naturalmente diventata una frazione) si era sciolta. Così il leader del nuovo partito rinunciava per spirito di disciplina, a quell'astensionismo, per il quale tanto si era battuto in passato. Ma, sempre coerente con se stesso, lasciò ai compagni le candidature al Parlamento. Egli se ne guardò bene. Probabilmente fu un errore, perchè il sia pur fragile schermo della immunità parlamentare poté valere ancora a qualche cosa nei primi anni della dittatura. Quando poi questa divenne regime, Gramsci, sebbene deputato in carica, venne arrestato (ma eravamo già nell'avanzato 1926), processato e condannato. Bordiga lo aveva preceduto in carcere da molto tempo, e il suo destino fu indubbiamente più lieve, ma l'ordinamento giuridico di allora - che Mussolini e Rocco non avevano ancora profondamente sconvolto con le leggi di regime - non avrebbe consentito di più. Del resto, le precise e talora sferzanti risposte che dava ai giudici in sede di processo [11] dimostravano chiaramente che Bordiga non fece proprio nulla per mitigare la propria sorte.

E qui occorre ormai puntualizzare un problema di fondo. La necessità della scissione di Livorno e della conseguente fondazione del nuovo autentico partito della classe operaia, ha sempre costituito nella storia e nella ideologia del P.C.I.  un dato, un punto di partenza fermo ed irreversibile.

Se così è, gli addebiti di schematismo ideologico, di dogmatismo, di settarismo, che sono stati portati in ogni tempo anche dalle voci più autorevoli del P.C.I. contro Amadeo Bordiga, non possono reggere ad una critica storica un po' approfondita. L'osservazione è implicita in un passo della ampia opera di uno studioso fiorentino, Renzo del Carria [12] il quale dopo aver ricordato che tanto il gruppo dell'Ordine Nuovo (anche per il Del Carria, Antonio Gramsci è il maggiore marxista italiano), quanto quello del Soviet fondavano il loro programma su una critica di fondo contro l'imborghesimento del socialismo di allora, e richiedevano per la classe operaia una nuova direzione che avesse per obiettivo la rottura rivoluzionaria, e pur riconoscendo al periodico di Gramsci una maggior ricchezza di tematica [13] così testualmente si esprime:

«Dei due chi aveva idee più chiare era il gruppo del Soviet  che aveva cominciato le sue pubblicazioni sin dalla fine del 1918 e che si era  da subito posto il problema della costituzione di una vera e propria frazione con carattere nazionale in seno al partito. La ragione per la quale questo gruppo prevarrà due anni dopo nella formazione del gruppo dirigente comunista sarà dovuta, oltre che alla sua organizzazione di carattere capillare su scala nazionale, anche ai suoi difetti di settarismo, che costituirono il fondamento del suo successo tra le masse col presentarsi come reazione assoluta ed intransigente, chiusa ad ogni alleanza e contro ogni forma di collaborazione con la borghesia». E più oltre: «E' interessantissimo scorrere la collezione del Soviet per rilevarne i difetti di settarismo, ma anche l'assoluta e salutare intransigenza che fece di questo organo per due anni l'unica voce di negazione della fallimentare politica socialista». Dogmatismo, intransigenza rivoluzionaria, lotta al riformismo e alle altre correnti intermedie del socialismo italiano, settarismo, costituirono dunque la ragione d'essere e, in definitiva, l'atto di nascita del Partito Comunista di Italia, pienamente coerente con i famosi 21 punti perorati anche dal bulgaro Kabacev, il rappresentante della III Internazionale davanti al Congresso di Livorno.

Probabilmente, se Lenin non fosse stato colto da morte così prematura, se Gramsci non fosse stato arrestato e definitivamente sottratto alla lotta contro il fascismo, Bordiga non sarebbe mai stato espulso dal partito. Pertanto, nella resistenza interna o nella emigrazione politica, egli avrebbe potuto mantenere il suo posto di combattimento dentro il P.C.I. (non necessariamente alla testa di esso) e all'indomani della liberazione si sarebbe trovato in primissima linea nella lotta per i nuovi compiti rivoluzionari che la fine della seconda guerra mondiale - abbattuti ormai l'hitlerismo e il fascismo - poneva al proletariato di tutti i Paesi, contro l'antico e sempiterno avversario.

 

L'Ajace del comunismo italiano

Comprendiamo benissimo che la storia non si fa con i se e con le retrospettive ipotesi astratte. Ma può anche darsi che se al timone della Russia dei Soviet fosse rimasto Lenin o se il suo testamento politico non fosse stato tenuto nascosto ai popoli dell'URSS [14] le cose, anche su scala europea e mondiale, sarebbero andate diversamente.

E' da sperare ed è forse da ritenere probabile che, in vista dell'ormai prossimo cinquantenario della scissione di Livorno e del conseguente atto di fondazione del P.C.I., sia ripreso, approfondito e portato fino alle sue logiche conclusioni quel processo di revisione di contingenti giudizi ed apprezzamenti che per troppo tempo hanno fatto relegare l'ormai scomparso Ajace del comunismo italiano negli ipogei della storia del nostro movimento operaio; è da augurare che, in omaggio alla verità, sia a lui riconosciuto quel posto che gli spetta nella galleria degli Eroi della futura Città del Sole; è tempo che quelle masse proletarie, il cui divenire è stato, nella buona come nell'avversa fortuna, il sogno dell'intera esistenza di Amadeo Bordiga, possano ripetere col poeta:

... ai generosi giusta di gloria dispensiera è morte.

 

Roma, 24 agosto, Mario Paone

 

«La Nuova Europa», mensile di attualità politica e cultura, n.3, settembre 1970

 

Note

 

[1] Vedasi in Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Ed. Einaudi, Torino, vol. I, pagg.264-65, lo stralcio di un «medaglione» che Ruggero Grieco dedicava a Bordiga nel lontano anno 1923. Appariva qui, per la prima volta in uno scritto di partito un accenno alla solida preparazione culturale di Bordiga, pur lontana dalla filosofia di Croce e di Giovanni Gentile, come è stato ricordato da Silone, in una recentissima intervista («Il Mondo», 9 agosto 1970). Vedasi anche, per il valore dell'uomo e per la eccezionale capacità di lavoro, la lettera di Gramsci del I° marzo 1924 (Togliatti: La formazione del gruppo dirigente del PCI, Editori Riuniti, 1962, specialmente a pag. 228-29).

[2] Spriano, libro citato.

[3] L'accusa mossa a Bordiga in un antico scritto di Togliatti a ricordo di Antonio Gramsci, ed secondo il quale egli viveva in Italia sotto la «protezione» della polizia fascista, fa parte del bagaglio polemico dell'emigrazione antifascista, e, stante la indiscutibile serietà dello scomparso capo del P.C.I., dovette essere frutto di una falsa e probabilmente provocatoria informazione. I fascisti erano bravissimi nello spargere subdolamente calunnie e motivi di diffidenza negli ambienti degli oppositori. Furono però superati da Hitler, che riuscì ad organizzare la più grande e tragica beffa che la storia ricordi: quella che portò alla fucilazione del maresciallo Tucascevski e di buona parte dell'alto comando sovietico (altro che la «Cena» di benelliana memoria!). Nel suo già citato saggio sulla formazione del gruppo dirigente del P.C.I., Togliatti, pur mantenendo nei confronti di Bordiga le sue severe critiche politico-ideologiche, ha lasciato cadere quell'addebito.

[4] Preparazione alla Storia della Sinistra Comunista, ed, «Il Programma Comunista», Milano, 1964.

[5] Vedasi, Togliatti, La formazione del nucleo dirigente del P.C.I., citato.

[6] Vedasi, Spriano, Storia del P.C.I., citato, I volume, Da Bordiga a Gramsci.

[7] Vedasi la bella e suggestiva biografia di Antonio Gramsci, a cura di Giuseppe Fiori, Bari, casa editrice Laterza.

[8] Giogio Amendola, Rileggendo Gramsci. Lo scritto apparso nel 1967 su Critica Marxista  è stato ristampato sotto il nuovo titolo Gramsci e Togliatti, nel volume dello stesso autore Comunismo, Antifascismo, Reistenza, Roma, Editori Riuniti, 1967.

[9] Bombacci, che i conservatori del tempo ebbero il merito di non prendere mai troppo sul serio, malgrado il suo nome fortemente onomatopico e la notorietà che gli derivava dal mandato parlamentare (ben altrimenti fu per Graziadei e per Maffi), nel suo intervento, preso dall'entusiasmo, disse«Il proletariato è il quarto potere dello Stato (sic). Evidentemente il povero Bombacci non aveva mai avuto modo di leggere con pò di attenzione  un primo capitolo di storia della Rivoluzione francese ad uso degli scolari di terza media inferiore, e perciò confondeva i poteri dello Stato con gli stati generali. Il resoconto stenografico non annota, a questo punto, quali fossero le reazioni di una assemblea, in cui dall'estrema destra all'estrema sinistra vi erano tanti uomini di superiore cultura. Risulta solo che qualcuno gridò «Parli Bordiga!» (ma questi aveva già parlato). Al che Bombacci, scusandosi, replicò: «Io non sono un teorico» E gli altri, di rimando: «Lo sappiamo!» (citati atti del Congresso, pag. 350).

[10] Anche nel successivo congresso del P.C.I. (1922) i relatori furono Bordiga e Terracini.

[11] Vedasi Spriano, opera citata, I volume.

[12] Proletari senza rivoluzione, edizioni Oriente, Milano, 1966, II° volume, pag.127 e segg.

[13] Vedasi però il saluto che per il Soviet inviava al nuovo periodico in data 15 giugno 1919 (Storia della sinistra comunista, cit. pag 173).

[14] Com'è noto, in quel testamento politico il massimo artefice della Rivoluzione d'Ottobre consigliava al P.C.U.S. di allontanare Stalin dal suo posto di Segretario del Comitato Centrale. E' però da aggiungere, per debito di obiettività, che, contrariamente ad una diffusa credenza quel testamento non restò ignoto allo stesso Comitato centrale. Stalin anzi presentò le proprie dimissioni che furono respinte (vedasi A. De Monzie, Petit manuel de la Roussie Nouvelle, Paris, 1930). Per quale motivo fossero respinte sarebbe tutt'altro tema di ricerca storica. E' risaputo, ad ogni modo, che i popoli dell'U.R.S.S. rimasero per ben 32 anni all'oscuro di ogni cosa.