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archivio > Articoli su Bordiga>Aldo Capucci, Bordiga fondatore ripudiato (Studi cattolici, n. 135, maggio 1972)

aggiornato al: 04/01/2008

maggio 1972

Questo articolo fu pubblicato su «Studi Cattolici» nel 1972. La rivista, non certo tacciabile di simpatie per il marxismo, propone uno scritto  più corretto di quanto proponevano su Bordiga le pubblicazioni del PCI di quel periodo.

L'autore dell'articolo Aldo Capucci, a meno di una omonimia sempre possibile, è ora, a più di 35 anni di distanza dalla redazione dello scritto, alto dirigente e membro della direzione nazionale dell'Opus Dei.

 

Bordiga, fondatore ripudiato

 

Bordiga è stato, ed è, un grosso pomo della discordia. Ciononostante di lui si è più taciuto che parlato, quasi che l'occuparsene potesse evocarne la personalità vigorosa e costringerlo di nuovo a scendere in campo, come al tempo della sua milizia politica. Non si vuole qui parlare di lui in termini che possano arrivare a far comprendere tutte le complesse vicende della storia della sinistra italiana che lo ebbero protagonista, massimamente nel periodo compreso tra la fine della prima guerra mondiale e il '24, anno nel quale, con il suo passaggio all'opposizione delle file del Partito comunista, inizia la sua parabola discendente. Ma la recente pubblicazione di alcuni importanti contributi che, più o meno direttamente, lo riguardano, può offrire lo spunto per una riflessione che ne tratteggi la personalità e il ruolo.

Tali contributi hanno sollevato polemiche e reazioni; polemiche culturali, s'intende, che non raggiungono certo le piazze o i palchi dei comizi, ma sulle quali più accanita è la resistenza degli intellettuali, abituati a considerare inderogabili «questioni di principio» quelle che potrebbero essere generalmente ridotte a semplici interpretazioni che godano sì di un certo grado di oggettività, ma non più di tanto. Prima di evocare i punti nodali su cui si sviluppa la polemica a suo riguardo, sarà utile accennare ai tratti più salienti della vita di Bordiga, quale ci si spiega dinanzi nella semplice lettura degli avvenimenti storici.

Laureatosi in ingegneria e divenuto assistente di meccanica agraria presso la scuola di Portici - dove insegnava anche il padre - Amadeo Bordiga (era nato nel giugno 1889), aderì subito al socialismo, e già dal 1914 controllava in pratica la sezione napoletana del Partito Socialista. Egli era un uomo prevalentemente d'azione e di organizzazione, e non è dato sapere quale fu il processo culturale che lo avvicinò al socialismo. La sua formazione intellettuale, non tocca[ta] dall'idealismo crociano, fatto abbastanza raro a quell'epoca per i giovani intellettuali napoletani, è difficilmente ricostruibile. Su ciò tace anche la De Clementi, che per la sua ricerca su Bordiga prende le mosse dal 1912, anno della fondazione del circolo Carlo Marx, a Napoli [1].

 

La parabola politica

Saltano immediatamente agli occhi, invece, il suo impressionante lavoro organizzativo e la sua dirompente attività pubblicistica, armi con le quali impostava per il PSI un discorso effettivamente rivoluzionario, scuotendo la sezione napoletana del partito dal suo tradizionale atteggiamento intellettualistico e dall'indirizzo prevalentemente riformistico. La sua azione era sostenuta da una purezza ideologica assoluta, da una ferrea fede nei postulati della teoria marxiana della lotta di classe e nella inevitabilità del trionfo finale del socialismo sul capitalismo; trionfo del quale era prefigurazione, e insieme traccia da seguire senza alternative, la rivoluzione russa e la vittoria di Lenin e dei bolscevichi. Su questo suo atteggiamento ideologico, su questa volontà di purezza dottrinale, definita a ragione «roberspierrista» [2], egli modellerà in maniera coerente ogni sua interpretazione e scelta politica, motivo per il quale finirà per venire duramente attaccato, ieri dai compagni di partito, oggi dagli storici comunisti. La scossa che egli riuscì a dare al movimento socialista napoletano ebbe come conseguenza un largo proselitismo operaio e una solida organizzazione sindacale in varie fabbriche e categorie di lavoratori. Contemporaneamente, Bordiga svolgeva un intenso lavoro in campo nazionale , teso all'aggregazione di tutte le forze della sinistra italiana e alla costituzione di una rilevante frazione di sinistra all'interno del PSI. Lunga sarebbe la storia di questo lavoro e dell'accordo che Bordiga riuscì a creare con i vari gruppi di sinistra, prima fra tutti quello importantissimo dell' Ordine Nuovo, la rivista teorica torinese alla quale facevano capo personalità come Gramsci, Terracini, Tasca e Togliatti. Ma furono solo la tenace volontà di Bordiga, il suo lavoro organizzativo, il suo rifiuto senza attenuanti del massimalismo unitario di Serrati (allora segretario del PSI), e del riformismo di Turati, Treves e Modigliani, che rappresentavano la destra dello stesso partito, a rendere possibile, perlomeno nel modo e nel momento in cui avvenne, la scissione di Livorno e la costituzione del Partito Comunista d'Italia, fondato nel teatro S.Marco il 21 gennaio 1921. Bordiga divenne subito Capo dell'Esecutivo (la carica di Segretario allora non esisteva), di un Esecutivo nel quale i suoi fedeli erano in larga maggioranza. Egli, se è vero che alcuni episodi storici possono venire emblematicamente definiti e riassunti dal nome del protagonista principale, fu senza dubbio il fondatore del Partito comunista, quello che uscì dalla scissione del '21, la cui linea di continuità con l'attuale è indiscutibile.

Egli condusse il partito in momenti difficili, quando la virulenza degli attacchi fascisti rendeva precario qualunque sforzo organizzativo; la convinzione, peraltro,  che il fascismo stesso rappresentasse un ultimo sussulto della borghesia, destinato a spianare la strada all'avvento del socialismo, rese  reale il paradosso che i comunisti, in quel periodo, si curassero maggiormente di attaccare gli odiati ex-compagni socialisti, piuttosto che costituire un fronte unico di difesa. Del resto il partito comunista trovava allora la sua ragion d'essere nella contrapposizione suddetta e doveva dimostrare, a parole e con i fatti, di essere il vero rappresentante degli interessi del proletariato. Atteggiamento comprensibile, ma che non trovava ormai più riscontro nella volontà di Lenin e del partito russo, formalizzata dal IV Congresso del Comintern, di lanciare a tutti i partiti comunisti d'Europa la parola d'ordine del fronte unico coi socialisti, nell'intento di opporsi in forze alle battute d'arresto e alla regressione che la rivoluzione europea aveva subito.

Sarebbe stato come dire a Bordiga di rinunciare a tutto ciò per cui s'era battuto. Altri l'hanno fatto; Bordiga no. Di qui l'attrito prima velato, poi più aperto, con la III Internazionale, poi la sua estromissione, per volontà di Lenin, dalla guida del partito italiano. A nulla valse l'offerta ripetuta di occupare cariche importanti nel seno stesso dell'Internazionale [3]; si temevano le conseguenze della defezione di un capo così prestigioso e fornito in Italia di largo seguito fra le masse. Bordiga andò all'opposizione, iniziò un'intensa attività frazionistica a sinistra fino a che inviato al confino dalla polizia fascista, maturò il suo progressivo distacco dall'attività politica, fino alla sua espulsione dal partito avvenuta nel 1930, a seguito del rifiuto da lui opposto alla proposta di espatriare [4]. Termina qui il racconto, pur sommario, sul Bordiga protagonista di fatti storici. La violenta campagna pubblicistica di partito [5] contribuì a far dimenticare ai militanti la figura del capo, del fondatore a lungo identificato con il partito stesso, limitando al massimo le conseguenze della sua espulsione. I movimenti extra-comunisti che da lui presero ispirazione,sono rimasti conventicole di iniziati, con scarso seguito fra il proletariato urbano. Bordiga ha continuato a lavorare  intensamente, ma sempre più appartato [6], fino alla sua morte. Nel 1964 aveva fatto uscire un'opera basilare per la ricostruzione delle vicende che portarono alla fondazione del PCI, Storia della sinistra comunista.

 

Il ripensamento degli storici

E' un fatto innegabile che la storiografia di sinistra abbia per lunghi anni taciuto o comunque sottovalutato l'azione che l'ingegnere napoletano ha compiuto per la fondazione del PCI. E' comprensibile che ai comunisti dispiaccia di essere stati fondati da chi li ha in seguito lasciati, gridando al tradimento opportunistico degli ideali primigeni. Spiace a tal punto che, a costo di falsare la realtà storica, per lunghi anni la minimizzazione di Bordiga ha portato con sé l'esaltazione di Gramsci non solo come teorico convinto, ma anche come causa e volontà principale della scissione dal PSI. O addirittura di Togliatti, che nel 1921 occupava, nel seno del nuovo partito, una posizione decisamente in sottordine, anche se destinata a rapida evoluzione.

E' stata per prima la Storia del partito comunista italiano di Galli e Bellini, pubblicata nel 1958, a ricollocare Amadeo Bordiga nel suo giusto posto. E uno studioso serio come Paolo Spriano, uno degli storici ufficiosi del Partito comunista, li ha seguiti sulla strada della rivalutazione di Bordiga, che nella sua opera [7] arriva ad assumere la notevole statura che gli compete. Lo stesso Spriano mette in guardia contro il misconoscimento dell'importanza che gli anni della direzione bordighiana hanno avuto nella storia del PCI: «C'è stata la tradizione, addirittura ricorrente, nella storia e nella tradizione del partito, di datare praticamente la nascita del PCI da Lione (1926), quasi lasciando al primo quinquennio quel carattere magmatico di preistoria datogli dalla prevalenza dell'estremismo, spesso davvero infantile, dal settarismo, dall'accumularsi di errori anche gravi compiuti sotto la direzione di Amadeo Bordiga ... E' una tentazione a cui pur si è resistito, e conviene resistere ancora di più perchè essa ci priverebbe non solo e non tanto di alcuni sacrosanti titoli di gloria bensì di un'esperienza preziosa» [8].

Posizione obiettiva , volta a sottolineare la maturazione che significò per il PCI il mutamento di dirigenza, e con esso di tattica, ai primi del '24. Posizione che sottolinea peraltro il nocciolo principale della questione: il PCI non nacque in maniera sbagliata, restando poi dolorosamente inquinato dalle malformazioni teoriche di Bordiga, ma nacque nell'unico modo e con l'unica configurazione che poteva avere in quel preciso momento storico. Così in fatti l'aveva voluto Lenin, e con lui l'Internazionale, che aveva inteso appoggiare pienamente l'opera di Bordiga e anzi l'aveva espressamente avallata. Ci sembra infatti un volersi arrampicare sugli specchi il tentativo recente di sottolineare una discrepanza tra il pensiero di Lenin come analisi della situazione mondiale e l'azione dell'Internazionale nell'applicare tale pensiero nel quadro della manovra per la formazione in Europa di nuovi partiti. Tra questi due elementi ci sarebbe «qualcosa che non raccorda completamente, e consente a Bordiga di inserire la propria azione e la propria analisi facendosi vedere come elemento di punta nella formazione del partito italiano» [9]. La stessa genericità e vacuità della formula usata ne dimostra l'inconsistenza. Lenin era nel contempo, come Stalin in seguito, il pensiero e l'azione dell'Internazionale Comunista. Giorgio Galli, in un saggio nel quale fa il punto sui progressi della storiografia comunista negli anni trascorsi dalla pubblicazione della sua Storia del PCI [10], rileva acutamente come Lenin avesse voluto il partito italiano modellato secondo la sua convinzione che la rivoluzione europea fosse imminente, convinzione che sia Bordiga che Gramsci condividevano pienamente. Ed è fuor di dubbio che senza l'appoggio dell'Internazionale e la sua spinta che risultò decisiva per avviare il processo di scissione, a Livorno le cose sarebbero andate diversamente; l'appoggio morale ed economico dell'internazionalismo comunista fu determinante per il sorgere ed i primi passi del partito italiano.

Ha certamente ragione Galli quando dice che  se l'ipotesi di partenza fosse stata diversa (quella dell'immanente crollo del capitalismo), il comportamento dei comunisti italiani sarebbe stato diverso. Egli ipotizza che essi «forse avrebbero finito col rimanere nel PSI (come Gramsci pensava sin dall'inizio del '20) preparandosi ad una sorta di 'lunga marcia attraverso l'istituzione'». Noi non pensiamo che sarebbe stato possibile comunque evitare, di lì a qualche anno la scissione, ma certo la storia del PCI sarebbe stata diversa. La verità dell'affermazione precedente è dimostrata dal fatto che il carattere estremista, settario  del primo partito comunista, cambiò quando l'Internazionale decise di cambiarlo, dopo il IV Congresso, e sarebbero cambiati tutti i componenti dell'Esecutivo se essi non si fossero allineati, come non fece Bordiga, sulle sue posizioni. Il che non vuol dire che in tale allineamento ci fosse solo calcolo e non una convinzione frutto di elaborazione teorica, ma soltanto che Gramsci, Terracini, Togliatti, Scoccimarro, Grieco e gli altri dovettero fare oltre che un atto di disciplina formale, un riesame di alcune loro convinzioni sulla tattica e sulla strategia comunista internazionale, per non doversi schierare all'opposizione, e restare di fatto esclusi dalla guida del partito.

Bordiga non esitò invece a scorgere, e a rilevare pubblicamente, una tendenza neo-opportunistica nella politica dell'Internazionale, e non volle restare là dove gli veniva imposto un modus agendi non in linea con le sue convinzioni. Sono stati, a nostro parere, due atti di coraggio diversi e opposti. Ognuno va valutato in sé, e raffrontato con l'intenzione di chi lo operò. Né si può giudicare dalla sterilità o dal successo a posteriori di un atteggiamento per ricavarne un insindacabile giudizio di valore.

 

Polemiche inutili

Alla pubblicazione del volume di Andreina De Clementi, cui si è fatto cenno più sopra, ha fatto seguito un coro di voci di dissidenza, se non di aperta critica. Particolarmente importante l'articolo che vi ha dedicato Silvano Levrero su Critica marxista [11], che lo fa oggetto di una stroncatura così violenta da far intravedere la permanente permalosità dei comunisti nei confronti di interpretazioni favorevoli al vecchio leader. In essa l'autore, pur cogliendo con precisione le carenze di fondo del lavoro della De Clementi, si lascia trasportare da una polemica inutile, che pretende darci un'immagine dell'autrice intenta al disperato tentativo di minimizzare «maternamente» le cantonate bordighiane e di esaltarne gratuitamente le (poche) intuizioni.

Nell'analisi critica del libro che il Levrero conduce, si giunge perfino ad affermare che la concezione strategica della funzione del partito e delle masse che aveva Bordiga, lo ha in fondo relegato nuovamente nell'ambito del massimalismo serratiano; evidente errore di prospettiva che ignora non solo tutta l'elaborazione sul concetto di partito che Bordiga è andato precisando sul Soviet, ma anche il fortissimo schieramento sindacale nella Napoli post-bellica, la cui realizzazione è stata giustamente ascritta a esclusivo merito suo. Ma c'è un'altra annotazione che rende interessante l'appunto mosso da Levrero a Bordiga. Non si accorge infatti Levrero che l'accusa da lui formulata di tradimento delle masse sul piano del concreto impegno rivoluzionario, è la stessa che oggi le forze della sinistra extra-parlamentare rivolgono al PCI, ed è la stessa che proprio Bordiga rivolgeva al PCI di Gramsci e Togliatti. E non a caso, in un certo senso, la rivalutazione di Bordiga ad opera della sinistra «più a sinistra», muove parallela  a tali attacchi rivolti al PCI. Rileva infatti Franco De Felice in un suo recente ottimo studio, che «tale operazione di recupero storiografico è sostanzialmente dovuta al gruppo dirigente della Rivista storica del socialismo... Essa è l'espressione di un orientamento più generale, caratterizzato dal ripensamento  delle vicende del movimento operaio italiano internazionale, sulla base di una precisa motivazione teorico-pratica; una differenziazione politica dal Partito comunista con l'obiettivo della rifondazione di un movimento di classe sull'ipotesi di un potenziale rivoluzionario sacrificato o distorto dal moderno revisionismo» [12].

Ciò porta, secondo De Felice, alla ricerca di figure rappresentative nella storia della sinistra «ipostatizzate come esempi di una purezza originaria andata dispersa nelle successive degenerazioni», e alla loro rivalutazione. E chi meglio di Bordiga si presta a tale riscoperta?

A questo punto la vicenda bordighiana, chiusasi sul piano storico, suscita più di un motivo di interesse per lo storico alla ricerca di analogie appassionanti. Essa si inserisce, a parte le peculiarità che le spettano per la sua primogenitura, nel quadro dei periodici sussulti che il comunismo riceve dal proprio fianco sinistro, lato che Lenin non pensava certo dovesse essere il più esposto. Tali scosse sono collaterali agli altrettanto periodici dilemmi fra collaborazione col potere, «via democratica al socialismo» da un lato, e intransigenza rivoluzionaria dall'altro, che si impongono alla dirigenza dei vari partiti comunisti. Ogni volta che in un partito comunista si verifica questo scontro fra «tecnicismo rivoluzionario», cioè fra un comunismo che si propone anche ai borghesi come modello di vita, e fra essi miete larghi strati di proseliti, com'è oggi in Italia, ed estremismo rivoluzionario, si verificano tensioni interne che portano a scissioni, a scomuniche  e alla formazione di altre forze «autenticamente comuniste»

 

Il rischio della parzialità

E' una realtà che la storia ha ampiamente dimostrato. Bordiga si pone all'inizio di tali processi di scissione. La sua voce fortemente critica si è fatta sentire ancora prima di quella di Trotzkji. Ed è per questo che la sua condanna è assicurata. Lo è stata prima che, come oggi, si addivenisse ad una individuazione dei suoi errori teorici.

Per questo una tale individuazione, anche se esatta, suona tardiva e insincera. Essa rischia di diventare, per gli storici del partito, una manifestazione di una ricorrente parzialità di giudizio, di un'incapacità gelosa di uscire da alcuni schemi concettuali. Non si tratta di riconoscere a Bordiga una sorta di carisma fondazionale che nessun altro ebbe per far nascere il partito comunista, bensì di rendergli giustizia in sede storica (e, per parte nostra, solo in quella, date le nostre essenziali riserve di valore in un giudizio sull'esperienza social-comunista nel suo complesso), sulla funzione di aggregazione, che egli più di ogni altro esercitò, della sinistra socialista.

 

Aldo Capucci

 

Studi Cattolici, n. 135, maggio 1972

 

Note:

 

[1] Andreina DE Clementi, Amadeo Bordiga, Einaudi, Torino, 1971.

[2] Il termine sempre usato in seguito per Bordiga, è stato coniato per la prima volta da Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962.

[3] Su queste ripetute offerte, si veda l'opera di Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Einaudi, Torino 1967-69, voll. I e II.

[4] v. Giorgio Amendola, Comunismo, antifascismo e resistenza, Roma 1967.

[5] Venne fatta addirittura circolare la voce che Bordiga fosse una spia fascista e un provocatore.

[6] La testimonianza di un suo  nipote, che lo andava spesso a trovare all'ultimo piano di un vecchio  palazzo napoletano, attraverso una serie interminabile di scale tortuose, ce lo presenta sempre seduto al tavolo, intento a picchiare violenti colpi sui tasti di una vecchia macchina per scrivere o assorto nell'esame di svariati documenti.

[7] L'opera è stata ora completata con la pubblicazione del III volume, La Resistenza e la Repubblica.

[8] Paolo Spriano, Significato storico della formazione del nuovo gruppo dirigente del PCI, ora  in  Problemi di storia del Partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 10.

[9] Franco Ferri, Lenin e il movimento operaio italiano, in Critica marxista, novembre-dicembre 1970, p. 103.

[10] Giorgio Galli, Il PCI rivisitato, in Il Mulino, gennaio-febbraio 1971.

[11] Silvano Levrero, A proposito di Bordiga. Un'occasione mancata in Critica marxista, maggio-giugno 1971, pp. 122-135. Il Levrero è autore, asieme ad Aurelio Lepre di La formazione del Partito Comunista d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1971. La sua competenza è fuori discussione e l'articolo è una riprova ulteriore di come più di un comunista, anche se preparato, perda le staffe quando si parli di Bordiga.

[12] Franco De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci, De Donato ed., Bari 1971, pp. 28-29.