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archivio > Articoli su Bordiga>Giuseppe Fiori, Il vecchio Bordiga oggi,(La Stampa, 16 maggio 1970)

aggiornato al: 19/01/2008

16 maggio 1970

Questo articolo di Giuseppe Fiori pubblicato da «La Stampa» del 16 maggio 1970 ha avuto  una strana sequela. Lo ritroviamo praticamente uguale, con minime variazioni (l'uso, ad esempio, del tempo imperfetto invece del presente) e con un titolo diverso "Le irruenze di Bordiga", in altro giornale, questa volta «L'Unità» una ventina di anni dopo, esattamente il 21 gennaio 1991.

L'articolo è  frutto di una intervista ad Amadeo Bordiga che  risale alla primavera-estate del 1970, e si contende con quella rilasciata ad Edek Osser l'appellativo di "ultima".

Fa  un poco pensare e pare strano che, a pochi mesi dalla morte, Bordiga abbia concesso due interviste dopo una vita passata volontariamente lontana  da ogni tipo di pubblicità (e quindi di intervista) e di palcoscenico.

Giuseppe Fiori (1923-2003), noto giornalista (e senatore della sinistra indipendente per più di una legislatura) all'epoca dell'incontro con Bordiga aveva già scritto la biografia del suo conterraneo Antonio Gramsci  ed in seguito si produsse in altre biografie: quella dell'anarchico Michele Schirru, di Emilio Lussu, di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli e di Enrico Berlinguer per finire nel 1995 con  "Il venditore. Storia di Silvio Berlusconi".

 

Il vecchio Bordiga, oggi

 

Ha compiuto ottant'anni, Gramsci gli tolse nel '26 la direzione del partito, ne fu espulso da Togliatti; eppure non cede. Grida: «Sono stato io a buttarli fuori» e rifiuta di riconoscere i "riformisti" del pci. Afferma che l'unico movimento rivoluzionario è il suo partito comunista internazionale, con mille seguaci. L'incontro con Lenin dopo la marcia su Roma.

 

Napoli, maggio (Dal nostro inviato speciale)

Vicino agli ottantun anni e afflitto da disturbi circolatori, Amadeo Bordiga è costretto quasi all'inattività. Riesce a star seduto, ma la posizione l'affatica. E' un corpaccione afflosciato. Poggia i piedi gonfi su un cuscino e l'ampio torace alle mani annodate sull'impugnatura di un bastone che gli fa da puntello. Ci vede poco, le figure sono filtrate da lenti molto spesse.

«Tu», subito il tu che invita al rapporto confidenziale, «hai scritto un mucchio di ...», e qui un'espressione plebea, «ma non sei una carogna».

 

Contro Terracini

Come accoglienza non è poi tanto male. Ci avevano avvertito. Da venticinque anni Bordiga rifiuta le interviste, non ama i giornalisti, li giudica tutti «mercenari». Che abbia acconsentito a vederci, è quindi un fatto già di per sé incoraggiante.

D'origine piemontese, figlio d'un professore d'economia rurale a Portici ed anch'egli, dopo la laurea in ingegneria, assistente a Portici di meccanica agraria, ebbe un ruolo preponderante nella fondazione del partito comunista d'Italia e lo diresse, capo incontrastato, sino al ritorno di Gramsci da Mosca e Vienna nel '24. Un po' tutti ne subivano il fascino, compresi gli uomini dell' Ordine Nuovo, di formazione culturale assai diversa.

Il primo a staccarsene fu Gramsci, che però del leader napoletano ammirava la «personalità vigorosa», l'ingegno, l'intraprendenza e il carattere «tenace ed inflessibile». Quando il Comintern gli propose di prenderne il posto alla guida del partito, ebbe inizialmente forti esitazioni: «Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisogna avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre». Più lenti a respingere le posizioni schematiche e settarie di Bordiga furono altri «ordinovisti» e Gramsci, una volta fatta la sua scelta sulla linea dell'Internazionale, non mancò di dolersene: «Togliatti non sa decidersi, com'era un po' sempre nelle sue abitudini; la personalità di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici». Ancora più duro Gramsci fu con Terracini: «E' fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perchè ne ha sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa».

Poco più che trentenne, Bordiga era stato il primo dirigente comunista italiano a conoscere e a scontrarsi con Lenin, il quale tuttavia ne aveva grande stima. Si videro per l'ultima volta pochi giorni dopo l'ascesa di Mussolini al potere. Di quest'incontro abbiamo adesso la testimonianza diretta.

«Si svolgeva a Mosca» ci racconta il vecchio capo, «il IV Congresso dell'Internazionale. Gli altri della delegazione italiana avevano lasciato l'Italia prima della "marcia" su Roma. Io fui l'ultimo a partire, e questo avvenne dopo il 28 ottobre. Lenin era malato: si diceva che non ce l'avrebbe fatta a venire al congresso. Preoccupato, chiesi di vederlo. Non era facile, perchè i medici gli avevano sconsigliato i colloqui prolungati e le discussioni politiche. Ma all'improvviso mi fu concesso di fargli visita, Lenin voleva conoscere da me gli avvenimenti italiani, e proposi a Camilla Ravera di accompagnarmi. Vennero anche D'Onofrio e Silone. Non poterono salire e s'accontentarono di aspettare giù in attesa. Ricordo che Lenin ci accolse non a letto ma nel suo studio. Ce l'aveva, scherzosamente si capisce, con i medici, molto severi nel controllargli la durata dei colloqui coi compagni».

 

I tre nemici

Parla torrentizio, mangiandosi le parole, e si fatica a seguirlo: «Subito mi chiese un rapporto sui fatti d'Italia. Gli dissi della "marcia" su Roma, dell'incarico dato dal re a Mussolini di formare il governo eccetera; poi aggiunsi la mia interpretazione degli avvenimenti».

Secondo il capo del pcd'I, fascisti e liberali andavano messi nello stesso mucchio, tutti nemici di classe, tutti ugualmente difensori dell'ordine capitalistico: Mussolini valeva Giolitto o Turati, e dunque dov'era il fatto nuovo se un partito borghese, quello fascista, prendeva il posto d'altri partiti borghesi alla guida del governo? Del resto, in ciò Bordiga era seguito da Terracini, che giudicava la "marcia" su Roma e l'affidamento del potere a Mussolini «una crisi ministeriale un po' mossa», e da Togliatti, per il quale il «tiranno bieco» da combattere aveva «un solo aspetto e un triplice nome: Turati, don Sturzo e Mussolini».

Non riusciamo a sapere da Bordiga se Lenin ebbe qualcosa da obiettare a simile interpretazione. «Mi chiese come avessero reagito gli operai. Gli raccontai i molti episodi di lotta avvenuti in luoghi diversi per respingere le violenze fasciste. Allora Lenin ci esortò a mantenere, ed anzi ad accrescere, i contatti con le masse. Prevedeva che saremmo andati incontro a momenti difficili. Si parlava appunto di questo, quando entrò la moglie. Dovevamo accomiatarci: il tempo concesso dai medici per il colloquio era scaduto».

Ebbe inizio il declino di Bordiga, sino alla definitiva sconfitta nel congresso di Lione (gennaio del '26). Poi l'arresto, il 10 ottobre del '27, l'assoluzione due anni dopo e l'invio a Ponza, confinato.

«Ripresi a fare l'ingegnere» ricorda.. «I ponzesi erano piuttosto causidici, litigavano per questioni di confine dei terreni, e se una famiglia si affidava per la perizia a Peppino Romita, altro ingegnere confinato, la controparte veniva da me. Facevo anche progetti di case. Ma un giorno ci chiamano in Comune: "I vostri progetti non potranno più essere approvati". E perchè mai? Il confinato ha l'obbligo di lavorare. Deve mettersi forse in un mestiere che non sa? Inoltrammo ricorso al ministero dell'Interno. La risposta: picche. Liberato nel '30 tornai a Napoli. Vita difficile: i clienti per paura s'allontanavano».

 

L'esule Trockij

Intanto Bordiga, sempre più in contrasto col nuovo gruppo dirigente guidato da Togliatti, era stato espulso dal pci. E qui cade opportuna una domanda. A quel tempo, Trockij viveva a Royan, nei pressi di St-Palais (Gironda). Alfonso Leonetti, altro dirigente espulso, era andato a trovarlo. Sentì chiedersi: «Perchè Bordiga non viene a darci una mano?». «Trasmisi l'appello all'ex capo del partito», ci ha testimoniato Leonetti, «ma non ne ebbi risposta». Chiediamo dunque: «Come mai, dopo che foste espulso...».

Non ci lascia terminare, «Io», esplode, «non sono mai stato espulso». Lo grida con tutta la sua antica vigoria, è squassato da un impeto d'ira. Ha sollevato il bastone, lo agita a mulinello davanti al nostro viso, tutto il corpo vibra «Sono stato io a buttarli fuori quei...» e giù una tempesta di parole triviali.

Emerge infine un lato insospettabile della sua personalità. Le nuove generazioni quasi ne ignorano il nome. Sino a pochi anni fa, le storie ufficiali tacevano la parte dominante da lui avuta nella formazione del partito. Chissà quanti lo credono morto, tanto a lungo s'è fatto silenzio intorno alla sua figura. In ogni caso,  un Bordiga direttamente impegnato nella lotta politica quarant'anni dopo il suo ritiro dalla milizia di partito chi poteva immaginarselo?

Eppure è così. Il fondatore del partito comunista d'Italia si considera ancor oggi il capo dell'unico vero partito comunista operante nel paese. Ha «buttato fuori» Togliatti e soci, i cui eredi gestiscono «un partito riformista». («Gli avvenimenti storici hanno dimostrato che avevo ragione io», sostiene) e dopo «l'espulsione» dei «traditori» ecco, depurato della frangia «opportunista», il solo partito rivoluzionario d'Italia, il suo, quello più seriamente ispirato ai testi classici del marxismo, il «partito comunista internazionale». Ha un migliaio di seguaci («il numero non m'interessa», dice), in generale vecchi emigrati politici che gli sono rimasti fedeli. Pubblica un quindicinale, «il programma comunista», un mensile di lingua francese, «Le proletaire» ed un periodico in lingua danese «Kommunistik Program». Le tesi attuali del «Partito comunista internazionale»? Esattamente quelle del 1921-22.

 

Tifo sportivo

Ripensiamo ad una battuta riferitaci in apertura di colloquio; di Zinoviev che diceva, per definire l'ostinato dirigente napoletano: «E' un palo telegrafico. Dov'è piantato, dopo dieci anni lì lo trovate». Lo abbiamo ritrovato lì dopo cinquant'anni. E ancora non s'arrende. «Al lavoro di partito  non rinunzio anche se mi dicessero che dopo due ore muoio».

L'assiste, leggendogli i giornali e scrivendo sotto dettatura lettere e articoli, Antonietta De Meo, che ha sposato cinque anni fa, dopo la morte della prima moglie Ortensia, sorella di Antonietta. Oltre la politica, ha una sola passione, rivelata da questo episodio. Gli telefona Sergio Zavoli, chiedendogli un'intervista per la televisione. Il vecchio rivoluzionario, puntigliosamente sfuggito per decenni a fotografi e cineprese, risponde immediatamente di sì; ma non all'intervistatore di Von Braun, Schweitzer, Follerau, accetta di ricevere l'animatore del «Processo alla tappa», ritrattista di ciclisti. I campioni della bicicletta hanno in Bordiga un ammiratore fervido. «Prima che si iniziassero le riprese» sappiamo da Zavoli, «a lungo mi ha parlato di Lenin, Gimondi, Stalin, Trotckij e Motta».

 

Giuseppe Fiori

 

La Stampa, n. 102, 16 maggio 1970