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archivio > Articoli su Bordiga>Guido Botta, Com'era Bordiga visto nell'intimità domestica (Paese Sera, 25 febbraio 1981)

aggiornato al: 01/02/2008

Paese Sera, 25 febbraio 1981

Poco conosciamo di Guido Botta, autore di questo articolo; sappiamo solo che fu amico di Oreste, figlio di Bordiga e che frequentò la casa di Bordiga.

Verso la fine dell'articolo si cita  una raccolta in francese di scritti di Bordiga; si tratta del volume «Espece humaine et croute terrestre» pubblicato nel 1978 nella "petite bibliotheque payot".

 

 

Com'era Bordiga visto nell'intimità domestica

 

Sulla scrivania di Amadeo Bordiga, nello studio gradevolmente antiquato che si apriva, con un'ampia veranda di vetri colorati, sul porto di Napoli, c'era un busto di Karl Marx, imponente, massiccio, quasi un'insegna della passione politica che il trascorrere degli anni non aveva menomamente attenuato. Su questo busto di Marx si raccontava volentieri, a casa Bordiga, una storiella emblematica, straordinariamente adatta a descrivere, se ve ne fosse bisogno, il livello culturale delle squadre armate del partito nazionale fascista (e non solo di quelle). Eccola: nel momento più caldo della spietata repressione attuata dal Pnf  nei confronti dei dissidenti, non importa se di destra o di sinistra, una squadraccia di manganellatori irruppe nella casa di Amadeo Bordiga al Vicolo Piliero, sul fronte del porto, per impartire una lezione, dicevano quei forsennati, all'uomo politico reo di aver dato origine al partito comunista, con la secessione del gennaio '21 a Livorno. Dopo aver sfasciato a colpi di manganello e di calcio di moschetto tutto quanto aveva l'apparenza di politico o culturale, gli incursori si trovarono di fronte al busto di Marx. Attimi di perplessità, poi la storica sentenza del caposquadra, nutrito di sane letture patriottiche: «Questo lasciatelo stare. Garibaldi non si tocca».

Su questo clamoroso errore di persona, da attribuirsi, per estensione, all'iconografia del regime fascista, che in ogni personaggio con la barba identificava Garibaldi, Mazzini o al massimo Verdi, Amadeo Bordiga scherzava volentieri con i rari amici che nel periodo successivo al suo rientro dal confino di Ponza, andavano a visitarlo nella sua casa del Piliero. Di questa vocazione all'umorismo, e di altri risvolti straordinariamente significativi del carattere di questo uomo politico non trovo traccia nello sceneggiato televisivo dedicato alla vita di Antonio Gramsci. Anche se ciò appare perfettamente comprensibile in una rievocazione intitolata al protagonista degli eventi politici che segnarono l'origine e la collocazione storica del partito comunista in Italia, si sarebbe forse potuto dare un rilievo maggiore al rapporto fra i due artefici primari della scissione nel movimento operaio italiano.

Qualcosa, per la verità, gli autori dello sceneggiato hanno inserito nel contesto di un racconto che, per esigenze di spettacolo, deve necessariamente sorvolare su certi aspetti particolari: per esempio la sollecitudine di Bordiga per il compagno di viaggio colto da un attacco del suo male mentre insieme, sul treno diretto a Mosca, si accingevano ad affrontare il confronto con il vertice del comunismo mondiale. Quel tratto istintivo, di umana, anzi fraterna preoccupazione per la salute di Gramsci, corrisponde appieno alla connotazione del Bordiga che, nella immediata vigilia della guerra, ebbi modo di conoscere, nel distaccato isolamento delle mura di casa.

Tornato da Ponza, aveva respinto tutte le lusinghe del regime, (ma Amendola formulò giudizi del tutto diversi) di cui lo stesso Mussolini si era fatto in qualche caso portatore, e si era reinserito nella sua professione di ingegnere edile, che aveva esercitato in passato saltuariamente ma con straordinaria bravura. Dirigeva in quei giorni i lavori di costruzione, o di ripristino, di un grosso fabbricato, mi pare una banca o qualcosa di simile, ed era, immagino, sottoposto alla stretta vigilanza dell'OVRA, ma con una apparente discrezione, perchè chi frequentava la sua casa come il ristrettissimo gruppo dei compagni di università del figlio Oreste, non avvertiva il minimo segno di disagio.

Era un Bordiga domestico, esteriormente tranquillo, che continuava a dedicare alle questioni politiche molte ore di lettura e di studio, ma che alternava queste occupazioni vocazionali, e quelle professionali, con momenti di svago di una semplicità e di un candore estremo. Era, per esempio, appassionato di calcio in una misura, e con un trasporto, incredibili. Ricordo di aver seguito con lui e con il figlio, certe radiocronache di Niccolò Carosio, mi pare, in occasione degli incontri internazionali, con manifestazioni di entusiasmo, o di dissociazione fortemente critica, se non addirittura violenta, che lo travolgevano come il più istintivo dei tifosi.

Seguiva occasionalmente gli studi di Oreste, che intendeva specializzarsi in glottologia e conduceva, quando appena aveva varcato la soglia dell'università, una ricerca sulla denominazione di «colleggiata» che caratterizza alcune istituzioni religiose, specialmente meridionali. A questa vocazione filologica Oreste alternava l'esercizio di una finissima vena poetica, che lo sollecitava a comporre squisiti madrigali dedicati in genere a personalità femminili del mondo del cinema o della letteratura. Più tardi, furono pubblicati in un celebre periodico cinematografico, per intervento di Giuseppe Marotta, se non ricordo male.

Del periodo trascorso a Ponza in confino, e che Oreste rammentava confusamente per la quotidiana familiarità con altri confinati illustri (Nenni fra gli altri) Bordiga non parlava mai, anche perchè noi ragazzi che frequentavamo la casa, per l'età e l'obiettiva disinformazione, non sapevamo molto né del secondo congresso tenuto dal partito comunista a Roma nel 1922, né del terzo congresso clandestino del '26 a Lione, che segnò di fatto l'allontanamento definitivo di Bordiga dalle posizioni di comando.

Per moltissimi anni, tra guerra ed altre tumultuose vicende, non rividi Amadeo Bordiga,, anche se indirettamente seppi che aveva duramente respinto le offerte di reinserimento nel quadro politico rivoltegli già durante la breve parentesi del governo di Salerno. Il suo nome tornò in primo piano sulla scena politica internazionale, al momento della clamorosa rottura fra Mosca e Belgrado. L'emergere di Tito come protagonista di quello che fu battezzato con un orrendo neologismo come «deviazionismo» sollecitò la stampa internazionale a richiamare la memoria di colui che, per primo forse in Europa, aveva deviato dalla strategia politica del Komintern stabilendo così un precedente di storica rilevanza. Fui incaricato allora dal settimanale per il quale scrivevo, di verificare le voci di un allineamento di Bordiga sulle posizioni grossolanamente definite come titoismo.

Trovai Bordiga in forma straordinaria, brillante, caustico, sdegnato per la pura e semplice supposizione di un suo avvicinamento a posizioni che considerava altrettanto erronee e falsificanti da quelle assunte dal Komintern del 1926. «Ma che deviazionismo e deviazionismo -disse, scandendo le parole con la medesima aggressività che aveva reso celebre la sua oratoria politica - Si devia da una linea giusta, non da un errore. A parte il fatto che dubito fortemente che le posizioni assunte dal maresciallo Tito rappresentino in qualche modo una correzione di alcunché, se quello che sta succedendo oggi a Belgrado merita una nuova denominazione, bisognerebbe parlare di «raddrizzionismo». Ma da questo punto di vista, ne sono più che certo, non sta accadendo assolutamente nulla, né a Belgrado né altrove».

Su questa definizione iniziale  inserì un tema che gli era particolarmente congeniale, quello del partito come minoranza attiva e rigorosamente selettiva, che si impadronisce del potere, rifiutando ogni sorta di circumnavigazione politica, di tipo elettorale, assembleare o plebiscitario. «Bastano 50.000 unità - disse - non una di più, non una di meno, per gestire il potere, e la dittatura del proletariato, questa meravigliosa espressione di Marx, non ha bisogno di addolcimenti e indorature». Rifiutata, negli anni successivi, ogni ipotesi di partecipazione diretta al movimento operaio, che riteneva disastrosamente avviato su posizioni borghesi, continuò fino al 1970, l'anno della sua morte, una solitaria battaglia di revisione ideologica, che conduceva sulle colonne di periodici quali «il programma comunista» e «Prometeo».

Ultimamente (ma non per la coincidenza con il 60° anniversario del partito comunista) il suo nome è tornato in primo piano nella pubblicistica politica francese. Un volume che raccoglie una scelta degli articoli nell'ultima fase della sua presenza ideologica sotto il titolo di «La specie umana e la crosta terrestre» ha cercato di conferire attualità ad alcuni dei suoi temi politici fondamentali, con un singolare inserimento critico su eventi che hanno marcato l'involuzione della società industriale. Ci sono capitoli, come quello che dà titolo al libro, che anticipano di vent'anni la contestazione ecologica ora esplosa in tutti i paesi occidentali; ed altri, dai titoli provocatori come «Pubblica utilità, cuccagna privata» e «Spazio contro cemento» che andrebbero, di là da ogni contrappunto ideologico, meditati da chi sovrintende inerte al disastro ambientale. E c'è il saggio conclusivo, «Gli esploratori del giorno dopo» [qui Botta traduce dal francese, ma il testo originale è in italiano e si intitola «Esploratori del domani»] che ha tutta l'aria di un caustico richiamo all'ordine, avanti lettera, per i futurologi del calibro di Herman Kahn e Alvin Toffler.

 

Guido Botta

 

Paese Sera, 25 febbraio 1981