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archivio > Archivio sulla sinistra>Due articoli sulla morte violenta di Kennedy (il programma comunista, n. 22 e 23, 1963)

aggiornato al: 22/03/2009

il programma comunista, n. 22 e 23, dicembre 1963

Questa volta, nella nostra riproposizione di scritti apparsi su «il Programma comunista», offriamo due articoli sulla morte violenta di Kennedy a Dallas il 22 novembre 1963 apparsi nel n. 22 e 23 di quell'anno.

Senza alcuna paura di esagerare «il Programma comunista»  nel suo primo ventennio, (e prima di esso «Battaglia comunista» fino al 1952), è stato come capacità, forza e chiarezza  alla stessa altezza della «Neue Rheinishe Zeitung» a metà 1800.

 

 

Impero del capitale, impero di sangue

 

E' un punto fermo da più di cent'anni che i marxisti rivoluzionari, proprio in quanto rivendicano una violenza collettiva col suo corollario storico della dittatura della classe vincitrice sulla vinta, e la rivendicano non già in nome di principi assoluti ed eterni, ma perché riconoscono in essa un fatto obiettivo delle società divise in classi antagoniste, l'esplosione di forze materiali cozzanti contro l'involucro conservatore della società moritura ma non disposta a morire e ammorbante coi suoi miasmi la giovane società che lotta per uscire dal suo grembo e spiccare libera il volo, proprio perciò non hanno mai approvato e condiviso il metodo della violenza individuale e, nella fattispecie, dell'assassinio di capi di Stato o di governo.

Questo metodo ha una triplice base antimarxista, idealista e moralistica: o il presupposto che nello Stato sia la radice di ogni male e che, sopprimendo colui che, come stoltamente si dice, «detiene il potere», si possa liberare l'umanità dai molteplici cancri che la rodono, o quello che il terrore esercitato contro di lui trattenga gli altri dal prenderne il posto, quasi che le forze reali  che spingono al potere uomini o gruppi non fossero mille volte più potenti dello stesso attaccamento alla vita del «capo» prescelto, o infine quello, in cui l'idealismo tocca il vertice della sua presuntuosa stupidaggine, che sia la persona umana, grande o piccina, a «fare la storia».

La stampa e la pseudocultura borghesi che in questi giorni si sono abbandonate a un parossismo di retorica adulatrice trasformando l'individuo Kennedy - quali che fossero le sue qualità personali di uomo (e non sarà inopportuno ricordare che pochi presidenti sollevarono da vivi tante critiche, fra i suoi stessi amici) - in un Grande, in un Dominatore, in un Eroe, anzi addirittura nel Perno sul quale poggiava  e col quale cadrebbe l' «umanità civile», si sono esse accorte che esprimevano la stessa ideologia distorta che ha armato la mano del suo uccisore, chiunque egli sia? La medaglia dell' «Uomo grande nel bene» ha sempre il suo rovescio nell' «Uomo grande nel male»; del primo non si può fare a meno allo stesso titolo falso con cui (nello stolido presupposto di cui sopra) si deve fare a meno del secondo. Per noi, per il materialismo storico, per la dottrina del proletariato rivoluzionario, l'individuo, quand'anche superasse gli altri in prestanza fisica o in potenza cerebrale, non fa che registrare più o meno fedelmente, in una direzione o nell'altra, i moti di fondo di una storia dalla quale egli è diretto, che egli  non dirige. Mettetelo per un istante al centro della storia come un demiurgo che la modelli o addirittura la crei, e vi stupirete che scomparso lui, la storia prosegua per la propria strada, la stessa, o, se imbocca una strada diversa, sia quella che già si esprimeva, lui vivo, nel suo procedere contraddittorio, e che egli stesso, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato costretto a seguire firmandola con la sua risibile sigla.

Ma voi per primi, o borghesi, sapete che la retorica dell'Eroe è una menzogna. Troppo facile sarebbe abbattere i vostri templi dorati, se fosse vero che questi stanno o cadono secondo che stia o cada il fragile birillo di un uomo! L'avete dimostrato voi stessi trasformando le esequie di Kennedy, col solidale concorso di tutti i potentati (Cremlino compreso), nella celebrazione di una messa solenne non in mortem ma in vitam della potenza americana, delle «virtù» democratiche, del «bene supremo» della coesistenza negli affari. Non l'uomo-Kennedy ha attirato davanti al nuovo Campidoglio la rappresentanza più folta dell'ordine costituito e delle sue glorie intrise del sangue di due guerre mondiali che mai si sia vista; ve l'ha attirata la solidarietà che lega al suo perno anonimo l'intero mondo borghese, alla casa-madre le sue innumerevoli filiali. Davanti al suo altare, non davanti alle spoglie di un uomo, era necessario inginocchiarsi per trarre dalla breve vicenda di un uomo il pretesto di levare un inno all' «eternità» di un sistema e di una legge. Questo sistema e questa legge, che sono dittatoriali e cruenti anche se si rivestono di democratismo e pacifismo, non cadranno con un uomo - è questo che il vertice funerario di Washington voleva dire agli schiavi della terra -;noi rispondiamo che cadrà egualmente in scontri sanguinosi, non perché un «capo» sarà stato trafitto da un proiettile, così come non sopravviverà alla condanna della storia perché sia stato eventualmente trafitto un umile o grande propugnatore dell'ideologia proletaria. Nulla è cambiato, urlano radio e televisione; tutto cambierà, urliamo noi, ad opera di una classe!

 

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Il marxismo che respinge il terrorismo individuale nella stessa misura in cui rivendica quel fatto storico che è la violenza collettiva determinata dalla necessità di rovesciare una dominazione di classe che ammorba i viventi, non può associarsi né al coro dei piagnoni, né a quello dei giudici. L'attentato è un effetto della divisione della società in classi e, se nasce in modo deforme da una visione non proletaria ma piccolo-borghese della storia, ha tuttavia sempre una causa oggettiva, storica e sociale; non appartiene alla sfera della criminologia, né si risolve giustiziando il colpevole. Pretendete di fare della vittima il Dio e dell'uccisore il Satana? Riconoscete allora che, ai due estremi di una classificazione che vi lasciamo perché non ci appartiene, entrambi sono le vittime di un ordine sociale che in loro ha espresso il suo dramma collettivo, le sue terribili lacerazioni interne. Tutta la storia della classe dominante americana e del suo Stato trasuda violenza, una violenza feroce, sorda, cieca, sotterranea, che scoppia in convulsioni periodiche e affonda le sue radici nell'assetto sociale e nel meccanismo produttivo di quella società del benessere, di quella gigantesca macchina del profitto, di cui a ragione è divenuto il simbolo non la Casa Bianca, ma Wall Street. L'assassinio di Kennedy e quello del suo uccisore solleva al massimo un lembo di velo sul mondo occulto di odi belluini che non si può separare dal tessuto connettivo della società capitalista. Se follia c'è stata, cercatela nella follia di un regime, non di un uomo o di due.

Chi ha ricordato, in questi giorni, le schiere interminabili di salariati bianchi e negri che, nel corso di una storia giovane di poco più che due secoli, hanno lasciato illacrimati la vita nelle stesse circostanze «misteriose», nello stesso clima da malavita organizzata, quindi socialmente identificabile? Chi ha ricordato le miriadi di lavoratori negri nel Sud, di lavoratori bianchi nel Nord, su cui si è abbattuta una cieca invisibile mano, una mano alla quale non si è mai riusciti a dare un volto perché era ed è quello dello sfruttamento della forza-lavoro, della feroce resistenza di una classe arroccata al potere contro il minimo gesto di rivolta o anche solo di disubbidienza, del suo schiavo? Chi ha ricordato che lo stesso filo rosso corre anche all'interno della classe dominante, fra gruppi in concorrenza reciproca, fra interessi difficili da conciliare se non nell'opposizione all'unico nemico di classe?

Quando nel 1912, il muratore Antonio d'Alba attentò alla vita di Vittorio Emanuele III, il congresso socialista di Reggio Emilia gridò, poco importa per la bocca di chi: «i regicidi sono gli infortuni dei re, come le cadute dai ponti sono gli infortuni dei muratori». Colui che, o per nascita o per elezione, va ad incarnare visibilmente o, come dite voi borghesi, a «dirigere» lo Stato che è la sovrastruttura di una società greve di violenza intrinseca, non può ignorare che la belva scatenata contro i proletari anonimi e non pianti da nessuno potrà imporre la sua legge feroce anche a lui. Nell'apprendere la notizia dell'assassinio De Gaulle ha esclamato: «morto in servizio». Esatto: non Kennedy dirigeva la società in stelle e strisce; egli si è limitato a servirla, nelle sue luci apparenti e nelle sue terribili ombre reali.

Il Moloch come spesso avviene, ha divorato un altro dei suoi figli, non il primo e non l'ultimo. Anzi, ne ha divorato tre, tanto noi siamo certi che la mano degli esecutori di un assassinio a catena è stata armata di carica esplosiva dalle contraddizioni interne della società del capitale, e dal suo retaggio di follia.

 

il programma comunista, n. 22, 30 novembre - 14 dicembre 1963

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Lacrimevole coro nel mondo pseudo - comunista alla mitomania borghese dell'Uomo

 

Non è il decesso dell'uomo, «grande» o «piccolo» che sia, né tanto meno la causa della sua fine, che inducono nei singoli e nelle masse riverenza e rispetto, che ne strappano un cordoglio profondo e talvolta li spingono a portarlo con l'animo ai «cieli».

L'uomo come qualunque altra specie di animale, l'individuo come qualunque altro esemplare zoologico, trapassa e sparisce. La sua vita può arrestarsi in mille modi, sebbene fondamentalmente e generalmente, o crepi o venga fatto crepare. Ma la sua posizione sociale, l'insieme degli interessi materiali e intellettuali da lui rappresentati, il posto ricoperto nello schieramento contrapposto delle forze sociali e politiche in lotta, tutto ciò che d'ordinario resta oltre la sua traiettoria vitale e unisce generazioni successive e diverse, forma il campo da cui la sua figura si delinea, da cui prende contorni la sua statura.. Nel meccanismo generale della vita sociale, nella dinamica delle lotte delle classi, nel posto in essa occupato e nel ruolo in essa svolto, risiedono i fattori delle dimensioni e dell'ascendenza dell'uomo, del singolo.

I vivi «non commemorano i morti»: li magnificano o li dannano, secondo che in essi si identifichi o meno, non un esemplare della loro specie, ma, nella storica lotta fra le classi, la loro condizione sociale e di classe; secondo che le idee e le azioni del morto costituiscano o meno il programma e la prassi delle forze sociali antagoniste.

Il presidente degli Stati Uniti John Kennedy, è morto vittima di un attentato. Tale la notizia che ha fatto il giro del pianeta nelle note a catapulta ripetute dalle rotative. Nel succedersi dei dispacci ufficiali, l'  «America» viene rappresentata nel dolore e nell'afflizione più profondi. Tutte le centrali borghesi del globo, e accanto ad esse le centrali cosiddette «socialiste» da Mosca in giù, abbrunano le loro bandiere, si chinano in segno di lutto. Capi di Stato, ministri, esponenti di quasi tutti i paesi della terra, di qualunque «campo» preteso diverso, sfilano in corteo funebre dietro la bara. Sfilano afflitti e in silenzio i Mikoian, i De Gaulle, i lord Home, e tanti e tanti altri: al «capo» del massimo stato imperialista del mondo vanno i segni di ossequio e l'ultimo omaggio dei compari dell'Est e dell'Ovest.

Il morto nella tomba, i vivi all'opera. «Il faro di occidente» s'è spento. L'uomo della pace non è più. Che succederà senza di lui? Quo vadis, mundus? Questa la lamentevole pantomima borghese, a cui fa eco strepitosa l'insieme dei movimenti pseudo-comunisti che a Mosca fanno capo.

Le colossali immense forze produttive evocate dal modo di produzione capitalistico, che ha sbrindellato l'individuo come una impercettibile molecola, avrebbero dunque affidato alle mani di un uomo il potere di sciogliere i nodi storici e sociali, di decidere la sorte dei popoli, la pace o la guerra? Ritornerebbe così in pericolo la pace, a dispetto degli eserciti che si tengono per la sua salvaguardia armati fino ai denti; a dispetto di tutti i deterrenti nucleari, la cui funzione protettrice  non ci si stanca di affermare? Oh suprema balordaggine di una borghesia giunte al vertice della sua decomposizione storica e  che, dopo di aver scaraventato dio giù dagli altari e dalla storia, ha messo al suo posto la ragione, l'individuo, la personalità; idoli ignavi e feticci stolidi se altri mai, tutti raccattati e tenuti su dall'apparente parte avversa, da tutti i movimenti che usurpano il nome di comunisti!

La pace di Kennedy, quella di Johnson che le succederà,  quella di Krusciov e compari, è l'interguerra più rapace, il periodo di più feroce oppressione, di sfruttamento più esoso del proletariato e dei popoli di colore del mondo, da parte del capitale di cui tutti loro sono i rappresentanti insigni con gli Stati Uniti in testa per ruolo e posizione. E' stata ed è la pace dei ladroni. E' stata ed è la pace dei mercanti che prepara la guerra: una guerra più sanguinosa, più distruttiva, più catastrofica di quelle che l'hanno preceduta.

Ora può andare negletta la figura del presunto omicida. La sua fine, non diversa da quella che si dice abbia prodotto, lo ha reso meno esecrabile all'isterismo quacchero e protestante della campionissima borghese «America».

Per la filistea morale borghese, la vita è «sacra». E tuttavia di essa si può disporre, purché nei casi previsti, purché nelle forme di legge. Così la canaglia razzista e la violenza organizzata dalla classe dominante -lo stato - possono legittimamente mietere le vite di coloro che si ribellano a un sistema inumano di sfruttamento bestiale.

La democraticissima  «America»  è maestra in sevizie e repressioni massicce di «schiavi» salariati, bianchi e di colore.

I comunisti autentici hanno sempre definito  sterile la violenza individuale. Non si esce dalla società di classe, dal terrore e dalla violenza organizzati dello stato borghese, con un colpo ben assestato di fucile che abbatta un capo illustre. La violenza rivoluzionaria è di classe e di Partito. Ma non si è mai scagliato l'olio caldo e approvato l'urlo della canea forsennata sull'attentatore, al quale non si è mai potuto negare coraggio e decisione nell'avventarsi su un potente col proposito dichiarato, e reso orgoglio, di abbattere un nemico di classe.

La tragica farsa di Dallas, tuttavia, neppure a tanto si solleva. La vittima e l'attentatore, vittima essa pure non di «furor popolare», ma di un presunto e molto preteso giustiziere, sono una grigia emanazione della triste «civiltà»del dollaro in cui quanto più si innalza l'inno alla persona, tanto più vile dev'essere il gioco della sua funzione servile, la sua dipendenza dal sacco d'oro.

La storia «scritta» conosce «tiranni» messi fuori e capi eliminati da congiure. In questi casi, l'affare ha fatto quasi sempre scena per e all'interno della classe dominante. Le classi sottomesse e soggiogate hanno poi dovuto imparare a caro prezzo che la trasformazione delle cose poteva nascere soltanto dalla loro vittoriosa insurrezione, e che sarebbe stato stoltezza imperdonabile  «piangere»  la fine di un uomo o, peggio,del rappresentante della classe da abbattere.

L'orrore per la fine violenta di colui o di coloro che sono preposti a un meccanismo di classe da rovesciare, equivale ad orrore per il proprio compito di abbattimento  e di soppressione della classe che governa e che opprime: è lo stesso terrore di classe del nemico, fattosi coscienza morale nell'oppresso, nello «schiavo».

La borghesia inocula nel proletariato, tramite l'opportunismo, l'orrore del proprio compito storico di rovesciarla e sopprimerla  politicamente. Con la complicità organizzata del pseudo-comunismo, essa aspira a che il «becchino» pianga la morte di ciò che deve seppellire; a che rinunzi a farlo e il «cadavere ancora cammini».

Nel quasi mondiale intrecciarsi di omaggi, di parole di riconoscenza e di onore, tributati da tutte le parti al defunto, le frasi più commosse e più alate partono dal Kremlino e dalle sue centrali minori: «Salvatore della pace», «Benefattore dell'umanità»,  «Amante del progresso dei popoli»...

Si fa inchinare il proletariato davanti al «personaggio», in segno di profonda, infinita stima.

L'esponente del più rapace  imperialismo, della controrivoluzionaria  per eccellenza «America», può dormire in pace: grazie all' irretimento dei proletari di tutti i paesi, il dollaro e zio Sam possono dominare senza il ricorso diretto alle armi e al tiro dei cannoni. Come, nella seconda guerra mondiale, Russia e satelliti «immolarono» alla difesa del decrepito mondo borghese e della sua putrida democrazia milioni e milioni di proletari, così oggi gli stessi vengono da quella e da questi chiamati a prosternarsi ai loro piedi.

Sciaguratamente ancora sale la forza del colosso immenso: gli Stati Uniti; cresce l'accumulo di forze e riserve del mostro imperialista che esercita sul pianeta il ruolo di iugulatore di prima forza della  rivoluzione internazionale proletaria; di strangolatore, laddove si presenti, dell'immancabile prospettiva comunista.

Possano, in un avvenire non lontano, i calpestati proletari americani e le masse di salariati bianchi e di colore, preparare degna sepoltura alla classe dei successori dello scomparso e ai suoi gendarmi, e spezzare il meccanismo sinistro del più potente stato capitalista di una terra sanguinante e sanguinata.

 

 il programma comunista, n. 23, 14-30 dicembre 1963