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archivio > Archivio sulla sinistra>La classe dominante non piange sulle sciagure... (il programma comunista, n. 21, 1966)

aggiornato al: 20/04/2009

il programma comunista, n. 21, 21 novembre - 5 dicembre 1966

Un altro vecchio, bellissimo articolo, tratto dalla nostra stampa del secolo scorso, che si occupa  delle calamità "naturali".

Non c' è bisogno di dire molto; già siamo intervenuti sul terremoto in Abruzzo, già abbiamo parlato di questi paesi, di queste città prede ora del vento che le attraversa, tra i cui cadaveri appaiono, sorridenti e pieni di promesse, in farsesche passeggiate elettorali, i nostri politici, con papi e ministri,  alla caccia e in cerca di applausi e di  voti.

Al lettore attento il riconoscere a quale sciagura e catastrofe, tra le tante che periodicamente ci colpiscono, ci si riferisce in questo articolo.

 

La classe dominante non piange sulle sciagure

ci ha sempre vissuto e ci vivrà sopra

 

Quando nell'autunno 1951, il Po ruppe gli argini allagando il Polesine e, allora come oggi, si levò il coro delle deprecazioni, del palleggio delle responsabilità, e dei patetici inviti alla solidarietà nazionale (da parte , prima di tutto, degli operai!), noi buttammo in faccia alla nostra classe dominante, nata e vissuta sulle sconfitte militari e sulle catastrofi «naturali», queste parole:

«In Italia abbiamo una vecchia esperienza sulle «catastrofi che si abbattono sul paese» e abbiamo una certa specializzazione nel «montarle». Terremoti, inondazioni, nubifragi, epidemie... Indiscutibilmente, gli effetti sono sensibili soprattutto sui popoli ad alta densità e più poveri, e, se cataclismi spesso terrificanti assai più dei nostri si abbattono su tutti gli angoli delle terra, non sempre tali sfavorevoli condizioni sociali coincidono con quelle geografiche e geologiche. Ma ogni popolo ed ogni paese ha le sue delizie: tifoni, siccità, maremoti, carestie, onde di caldo e di gelo ignote a noi del  «giardino d'Europa»; e aprendo il giornale se ne trova immancabilmente più di una notizia, dalle Filippine alle Ande, della calotta glaciale ai deserti africani.

«Il nostro capitalismo, poco importante quantitativamente, ma all'avanguardia non da oggi, in senso «qualitativo», della borghese civiltà, di cui offrì i più grandi precursori tra lo splendere del rinascimento,  ha sviluppato in modo maestro la economia della sciagura».

E (numero di fine dicembre 1951, articolo «omicidio dei morti»), spiegammo il meccanismo, misterioso ai gonzi ma chiaro come il sole ai marxisti, per cui la civiltà borghese, ultratecnica e ultrascientifica come si vanta di essere, non solo non garantisce l'umanità dai disastri, ma li provoca e ci vive sopra, e, più continua a sussistere come un cadavere che purtroppo cammina, più trae dal doppio omicidio - dei morti, cioè delle opere trasmesse a noi dal passato, e dei vivi, cioè della loro forza-lavoro spremuta nelle orge della ricostruzione - la forza di durare minacciando sempre più gli abitanti del pianeta. Ricordammo questo meccanismo in una sintesi che appare oggi confermata per l'ennesima volta - anzitutto perché il disastro si è, come prevedevamo, ripetuto e in secondo luogo perché, come era nei presagi, la sua ripetizione è avvenuta su scala tanto maggiore quanto più gli anni di sopravvivenza del capitalismo si sono allungati:

«Il capitale - scrive Marx - è lavoro morto che, simile al vampiro, si rianima solo succhiando il lavoro vivente, e la sua vita è tanto più lieta quanto più gli è dato di succhiarne.

«Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più, ha tutto l'interesse a inutilizzare i prodotti del lavoro morto [gli argini, i ponti, le dighe e via dicendo] per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale "succhia" profitti. Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è così bene allenato alla prassi della catastrofe.  In America, la produzione di automobili è formidabile; ma tutte o quasi le famiglie hanno la macchina: si arriverebbe all'esaurimento delle richieste. E allora conviene che le automobili durino poco. Per ottenere tanto, prima di tutto si costruiscono male e con serie di pezzi abborracciate. Se gli utenti si rompono più spesso l'osso del collo, importa poco: si perde un cliente; ma vi è una macchina di più da sostituire. Poi si fa ricorso alla moda, col largo sussidio cretinizzante della propaganda pubblicitaria, per cui tutti vorrebbero avere l'ultimo modello, come le donne che si vergognano se portano un vestito, magari intatto, «dell'anno scorso». I fessi abboccano, e non importa se ha più vita una Ford costruita nel 1920 [o un ponte costruito dagli antichi romani] che una vettura nuova di trinca 1951. Ed infine, le macchine usate non si utilizzano nemmeno come ferraccio; si gettano nei cimiteri delle automobili. Chi osasse prenderne una dicendo: l'avevo buttata via come cosa senza valore, che c'è di male se me l'aggiusto e vado in giro?, riceve una schiopettata e una condanna penale.

«Per sfruttare lavoro vivo, il capitale deve annientare lavoro morto tuttora utile. Amando suggere sangue caldo e giovane, uccide i cadaveri. Così mentre la manutenzione dell'argine di un fiume per dieci chilometri esige lavoro umano, poniamo, per un milione all'anno, è più conveniente al capitalismo rifarlo tutto spendendo un miliardo. Altrimenti gli occorrerebbe aspettare mill'anni. Ciò vuol forse dire che il governo nero [oggi il centro sinistra; cambiate i nomi, la sostanza è la stessa oggi come allora] ha sabotato gli argini dei fiumi? No di  certo. Vuol dire che nessuno ha fatto pressione perché stanziasse il misero annuo milioncino, e questo non si è speso perché ingoiato nei finanziamenti di altre «opere grandiose» di «nuova costruzione», che preventivavano miliardi.

«Ora che il diavolo ha portato via l'argine, si trova qualcuno che, con ottimi motivi di sacrosanto interesse nazionale, attiva l'ufficio progetti («Commendatore, l'ufficio progetti della nostra impresa si è fatto un dovere di predisporre studi tecnici ed economici: le sottopongo la pappa bella e fatta»), e lo rifà.

«A chi la colpa di far preferire i grandiosi investimenti? Ai neri e ai rossastri. Gli uni e gli altri cianciano che vogliono una politica produttivistica e di pieno impiego. Ora il produttivismo, creatura prediletta di don Benito, consiste nel mettere su cicli «attuali» di lavoro vivo su cui l'alta impresa e l'alta speculazione fanno miliardi. E allora aggiorniamo a spese di Pantalone le macchine invecchiate degli alti industriali, e aggiorniamo anche gli argini dei fiumi dopo di averli fatti sfondare. La storia di questi ultimi anni di gestione amministrativa dei lavori di stato, e di protezione all'industria, è piena di questi capolavori, che vanno dai rifornimenti di materie prime rivenduti sotto costo ai lavori «a regia» consistenti nella «lotta contro la disoccupazione» a base di «capitale costante uguale a zero». In parole povere, spendiamo tutto in salari, e l'impresa non avendo altra attrezzatura che un badile per uomo, convince il commendatore come sia utile un movimento di terra: prima la si porta tutta da qui a lì; e subito dopo la si riporta da lì a qui...

«Tutte le operazioni produttivistiche dell'economia italiana e internazionale sono dal più al meno distruttivistiche quanto lo sconvolgimento padano [o padano-veneto-toscano]: l'acqua entra da una parte e scappa dall'altra».

 

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Allora come oggi, si invitò Pantalone a vuotare le tasche per permettere al buon padre Stato di intervenire con giganteschi lavori; allora come oggi si lamentò dalle diverse parti che i soldi raccolti non fossero stati usati bene. Noi affermammo che i soldi erano stati spesi come nella società capitalistica devono essere spesi, non dunque per assicurare la vita umana [Non si è letto, perfino su giornali «di tutto riposo» come La Stampa, che sarebbe bastato un telefono perché il disastro nel Grossetano fosse, se non prevenuto, almeno preannunziato diciotto ore prima in modo da salvare uomini e bestie? Ma un telefono non è «un grande lavoro», la sua installazione non frutta, è perfino una perdita di tempo e «tempo è danaro»! Moltiplicate questo caso per i mille di cui non si parla, o che è facile immaginare, e avrete la chiave del disastro 1966], non dunque per difendere le opere trasmesse dal passato o create con molto minor efficacia nel presente, ma per inaugurare sulla loro futura e sempre più gigantesca rovina l'orgia della ricostruzione e la cuccagna delle grandi libere imprese capitalistiche.

Allora come oggi, i diversi componenti dell'arcobaleno politico democratico si palleggiarono le responsabilità, da destra lamentando l'incuria di una burocrazia pletorica che solo un ritorno al liberalismo classico permetterebbe di ricondurre all'efficienza e alla moralità di altri tempi; da sinistra protestando contro l'inefficienza di un governo dal quale gli eterni aspiranti alla salvezza e alla conservazione del regime democratico sono cocciutamente esclusi. La ricetta per evitare le calamità allora come oggi fu: Levati di lì, ci vo' star io.

La risposta proletaria a questa frenetica corsa al posticino di salvatori dell'umanità, è una sola: Chiunque siate, al timone della società borghese voi ne servite e ne servirete le leggi distruttive e mortifere. Potenziare il meccanismo economico dello Stato? Ma la funzione di questo meccanismo è di vegliare a che il capitale succhi lavoro vivo sulle ceneri del lavoro morto. Rinnovare il personale dirigente? Ma questo è e non può non essere l'amministratore di un'azienda che deve, calpestando l'Uomo da essa e dai suoi ideologi esaltato, generare profitto!

Vane dunque le meraviglie (vere o false) dei teorici del progresso e degli adoratori della scienza e della tecnologia capitalistica per la dimostrata incapacità di queste di sventare a tempo la sciagura. Scienza e tecnologia sono armi di classe e «se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione - scrivevamo nel 1951 -, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena dell'accumulazione frenetica del capitalismo non ha come prospettiva  la «decrescenza» di una curva discendente delle letture all'idrometro, ma la catastrofe della rotta».

 

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Citammo allora l'articolo di un uomo politico ed economista più o meno illustre in cui si deprecava che tanto si trascuri in Italia la conservazione e manutenzione delle opere esistenti: «Non s'insisterà mai abbastanza sulla necessità di reagire al sistema di concentrare l'attività degli uffici esclusivamente o quasi nella progettazione ed esecuzione di grandi opere... Si spendono decine di miliardi per effetto degli allagamenti ( e domani centinaia ) dopo aver sistematicamente lesinato e negati i pochi fondi per le opere di manutenzione (il caso fra mille, di quel telefono) e persino per la chiusura delle rotte». Oggi, dopo l'ennesima e assai più grave «calamità nazionale», le colonne di tutti i giornali hanno ripetuto: Urge difendere il suolo, urgono i rimboschimenti. urge un'opera metodica e sistematica di regolamentazione del regime idrico! Ingenuo candore: il Capitale fugge il suolo che rende troppo poco; sulla sua scia, il contadino diserta la campagna inseguendo il miraggio della favolosa città dispensatrice di quattrini «non sudati», l'agricoltura decade di anno in anno; e voi, tecnici, professori e ideologi, proporreste che una società per la quale Madre Terra è l'ultima delle Cenerentole, e un soldo speso in essa - pigra com'è nei suoi cicli prodotti -costa di più, perché non rende, che i miliardi buttati in un «inutile» sonda spaziale, si preoccupi del Suolo? Il suolo, per questa società, è il basamento su cui erigere la piramide degli affari; più esso è fragile, più risponde allo scopo.

 

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Qualche altro ha lamentato che nello scientificissimo secolo XX, non si sappia fare neppure quello che, quattrocento anni fa, la Repubblica di Venezia faceva, con ammirevole impegno, per regolare le acque su cui, simile ad un'enorme zattera, la sua città sorgeva. Il guaio è che quattrocent'anni sono appunto trascorsi, e certe questioni di «sollecitudine» per la vita e il lavoro umani presenti e, ancor più, futuri non tormentano una società la cui insegna è «gli affari sono gli affari». Scrivevamo:

«Tali problemi sono insuperabili in campo capitalistico. Se si trattasse del piano di fare in un anno le armi per dare ad Eisenhower [oggi diremmo a Johnson], la soluzione si trova. Sono tutte operazioni a ciclo breve e il capitalismo va a nozze se la commessa di diecimila cannoni ha il termine di cento giorni e non di mille. Non per nulla c'è il pool dell'acciaio! Ma il pool dell'organizzazione idrogeologica e sismologica non si può fare, a meno che l'alta scienza del tempo borghese non riesca davvero a provocare in serie, come i bombardamenti, anche le alluvioni e i terremoti.

Qui si tratta di lenta e non accelerabile trasmissione secolare, di generazione in generazione, di risultati di lavoro «morto» ma tutelatore dei viventi, della loro vita e del loro minore sacrificio», e per il capitalismo - un mostro con  «il diavolo in corpo» -, questa lentezza e non accelerabilità è sinonimo di asfissia! Scrivemmo: «Il capitale è ormai inadatto alla funzione sociale di trasmettere il lavoro dell'attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non vuole appalti di manutenzione, ma giganteschi affari di costruzione; per renderli possibili, non bastano i cataclismi della natura, il capitale crea per ineluttabile necessità quelli umani, e fa della ricostruzione post-bellica l'affare del secolo». E qual'è, ormai, il periodo che non sia di ricostruzione post-bellica?

 

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Allora come oggi  si deprecò la «psicologia nazionale italiana», e la si sottopose a processo. Scriveva il più o meno illustre uomo politico nel 1951: «Noi difettiamo tutti di spirito conservativo per abbondanza di fantasia incontrollata». Ma la questione non è di tare psicologiche. In uno scritto del 1853 sull'India sotto la dominazione britannica, Marx ricorda come i Mogul,  simili d'altronde in questo ai faraoni egiziani  o agli imperatori cinesi, avessero curato metodicamente le opere di regolamentazione dei fiumi da cui dipendeva l'esigenza stessa di una società non ancora «evoluta» come la nostra: vennero gli inglesi e «ereditarono dai loro predecessori i dipartimenti delle finanze e della guerra [Marx non usa le parole a vanvera: sono i grandi meccanismi statali di costruzione-distruzione-ricostruzione, i ministeri capitalistici per eccellenza] ma trascurarono completamente i lavori pubblici» ed è dall'avvento del capitalismo in Asia  al seguito di quegli inglesi ai quali certo non si può imputare uno scarso spirito «conservatore» o un eccesso di «fantasia», che datano le calamità a rotazione di cui le sue popolazioni sono afflitte più delle nostre.

No, signori, le catastrofi cosiddette naturali non hanno radici in particolari forme di governo o di psicologia, o di incultura, o di imprevidenza; non sono colpe di individui o gruppi. Sono catastrofi sociali, inevitabili finché dura l'impero del capitale come lo sono le crisi economiche e le guerre fra stati. O la vita di quest'impero, o quella del genere umano: non c'è via di mezzo.

 

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La strada aperta ai proletari non è dunque quella di un ennesimo turno di solidarietà nazionale per raccogliere «aiuti» per cui ricostruire argini ancor più di pasta frolla e preparare catastrofi ancora più spaventose; non è quella di aprire al fiume della democrazia un letto rosa invece che nero in cui scorrere tranquillo. La via è quella di un'altra - e salutare - inondazione. Scrivevamo e scriviamo:

«Anche il fiume immenso della storia umana ha le sue irresistibili e minacciose piene. Quando l'onda si eleva, essa mugge contro i due argini che la costringono: a destra quello conformista, di conservazione delle forme esistenti e tradizionali; e lungo esso salmodiano in processione preti, pattugliano sbirri e gendarmi,blaterano i maestri e i cantastorie delle menzogne ufficiali e della scolastica di classe.

L'argine di sinistra è quello riformista, e vi si assiepano i «popolari», i mestieranti dell'opportunismo, i parlamentari ed organizzatori «progressivi»; scambiandosi ingiurie traverso la corrente, entrambi i cortei rivendicano di avere la ricetta perché il fiume possente continui la sua via imbrigliata e forzata.

Ma ai grandi svolti, la corrente rompe ogni freno, esce dal suo letto e «salta», come saltò il Po a Guastalla e al Volano, su una direttrice inattesa, travolgendo le due sordide bande nell'onda inarrestabile della rivoluzione eversiva di ogni antica forma arginale, plasmando alla società come alla terra un volto nuovo!».

 

il programma comunista, n. 21,  21 novembre - 5 dicembre 1966