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archivio > Archivio sulla sinistra>Il futuro del capitalismo è fatto di lacrime e sudore (il p.c., n. 12, 27 giugno - 11 luglio 1966)

aggiornato al: 14/09/2009

il programma comunista, n. 12, 27 giugno - 11 luglio 1966

Ecco la seconda parte del lavoro di cui abbiamo precedentemente pubblicato la prima (Il futuro che sognano i borghesi è un'estensione del loro infame presente).

 

Il futuro del capitalismo è fatto di lacrime e sudore

 

A demolizione sulle profezie di un futuro che sarebbe soltanto una esaltazione del modo di produzione capitalistico presente, si sono citati nella puntata precedente i passi in cui Marx sbugiarda il sogno di un idilliaco e pacifico sviluppo della società borghese, e l'inizio di un brano del Capitale in cui la vera realtà della «società delle macchine, della scienza e della tecnica» è messa a nudo. Qui riprendiamo il tema e le citazioni.

 

«La rivoluzione del mezzo di lavoro costituisce come si è visto, il punto dal quale prende le mosse la grande industria; e il mezzo di lavoro rivoluzionato viene ad avere la sua figura più sviluppata nel sistema organizzato delle macchine nella fabbrica».

Le ragioni per cui le macchine si affermano non sono quelle di una incarnazione della idea del progresso, esse corrispondono ad una necessità del capitale: d'un lato la necessità della concorrenza, e dall'altro l'affermarsi delle prime legislazioni sulla regolamentazione del lavoro femminile e dei fanciulli che, rendendone non conveniente l'utilizzazione, spingono i capitalisti, a sostituirli con macchine. «Prima del divieto del lavoro delle donne e dei fanciulli (al di sotto dei dieci anni) nelle miniere, il capitale trovava che il metodo di utilizzare donne e ragazze nude, spesso legate con uomini, nelle miniere di carbone ed altre miniere, concordava così bene col suo codice morale, ed in specie col suo libro mastro, che si rifece alle macchine soltanto dopo quel divieto. Gli yankees hanno inventato macchine spaccapietre. Gli inglesi non le adoperano perché al miserabile che compie questo lavoro vien pagata una parte così piccola del suo lavoro che le macchine rincarerebbero la produzione per il capitalista».

D'altro canto le macchine portano ad un prolungamento della giornata lavorativa, ad un aumento dell'intensità del lavoro, all'instaurazione di una ferrea disciplina di fabbrica, a tutte le caratteristiche tecniche e produttive della produzione industriale su grande scala: «In un primo tempo nelle macchine il movimento e l'attività del mezzo di lavoro si rendono indipendenti di fronte all'operaio. In sé e per sé  il mezzo di lavoro diventa un perpetuum mobile industriale che continuerebbe ininterrottamente a produrre se non si imbattesse in determinati limiti naturali dei suoi aiutanti umani: la loro debolezza fisica e la loro volontà a sé. Come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevolezza e volontà del capitalista; il mezzo di lavoro è quindi animato dall'istinto di costringere al minimo di resistenza il limite naturale dell'uomo, riluttante ma elastico». In nota Marx riporta una citazione di Roberto Owen dalle sue «Osservazioni sugli effetti del sistema manifatturiero»: «Da quando è divenuta generale l'introduzione di macchine costose la natura umana è stata sottoposta a esigenze molto superiori alla sua forza media».

 

Un "progresso" disumano

 

Oggi assistiamo all'abuso di ore straordinarie, alla lavorazione ripartita in tre turni onde ottenere che le macchine rimangano in funzione per distribuire su una massa di prodotti più ampia il valore che esse trasmettono. In tal modo la macchina, invece di essere un ausilio alla solita «umanità», si presenta ostile all'operaio, ai cui occhi incarna la potenza opprimente del capitale.

Nella manifattura e nell'artigianato l'operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l'operaio che serve la macchina. Là dall'operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane. La malinconica svogliatezza di un tormento di lavoro senza fine, per cui si torna sempre a ripercorrere lo stesso processo meccanico, assomiglia al tormento di Sisifo; la mole del lavoro, come la roccia, torna sempre a cadere sull'operaio spossato. Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime la azione molteplice dei muscoli, e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. E' fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoprare la condizione del lavoro ma viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo  lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente.

«La scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavoro, si compie, come è già stato accennato prima, nella grande industria edificata sulla base delle macchine. L'abilità parziale dell'operaio meccanico individuale svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema  delle macchine e che con esso costituiscono il potere del padrone».

Lunga citazione; ma condanna senza remissione del progresso capitalistico. Il lavoro a catena opprime oggi sempre più con la sua vacua e monotona insensatezza e col suo ritmo infernale; se progresso vi è stato, è nella direzione di rendere più efficace ed evidente l'esistenza delle macchine come appendice del capitale; come capitale esse stesse. Le corrispondenze che giungono dai paesi capitalistici più avanzati, parlano sovente in tono di preoccupazione del crescente fenomeno della disoccupazione tecnologica: della disoccupazione creata dal diffondersi da macchinari sempre più automatizzati che sostituiscono un numero crescente di operai e semplificano le fasi operative. Questo fatto è già stato documentato sulle colonne del nostro giornale, insieme alla critica delle misure filantropiche prese dai vari governi per fronteggiare tale piaga. Il fenomeno non è nuovo, ed è inscindibile dall'uso capitalistico del macchinario; Marx lo previde e descrisse un secolo prima della «rivoluzione dei computers»: «I dati di fatto reali, che erano stati travestiti dall'ottimismo economico, sono questi: gli operai soppiantati dal macchinario vengono gettati fuori dell'officina, sul mercato del lavoro, e quivi accrescono il numero delle forze-lavoro già disponibili per lo sfruttamento capitalistico. (...) Qui diciamo solo questo: certamente gli operai schiacciati da una branca dell'industria possono cercare un'occupazione in un'altra qualsiasi. Se la trovano, e se si riannoda così il vincolo fra loro  e i mezzi di sussistenza insieme ad essi messi in libertà, ciò avviene per mezzo di un capitale nuovo, addizionale, che preme per essere investito, ma mai per mezzo del capitale che funzionava già prima e che ora è trasformato in macchinario. E anche allora, che meschine prospettive sono le loro! Storpiati dalla divisione del lavoro, questi poveri diavoli valgono così poco fuori della loro vecchia sfera di lavoro che trovano accesso soltanto in alcune poche branche di lavoro, basse e quindi costantemente sovraccariche e sottopagate». Storia vecchia, quindi, e veramente non ci incantano i programmi di riqualificazione iniziati fra gli strilli di tromba di una propaganda obbediente.

 

Quando avrà un senso il progresso?

 

Ma un'altra obiezione ci sentiamo avanzare: quella di essere dei negatori del progresso, di essere dei pavidi pietisti. Ci sentiamo dire con voce roboante che il progresso vuole le sue vittime e che bisogna andare avanti senza timori; qualche contrasto è inevitabile, ma i vantaggi dell'uso delle macchine sopravanzano di gran lunga gli svantaggi. Ritorniamo all'ausilio di Marx che definisce questa frase come il colmo dell'apologia della borghesia, e pone la questione nei suoi termini reali: «E' un dato di fatto indubbio che le macchine in sé non sono responsabili di questa «liberazione» degli operai dai mezzi di sussistenza. Le macchine riducono più a buon mercato e aumentano il prodotto nella branca che conquistano e in un primo momento lasciano inalterata la massa dei mezzi di sussistenza prodotti in altre branche della industria. Dunque la società possiede, prima e dopo la loro introduzione, altrettanti mezzi di sussistenza, o anche di più, per gli operai spostati, astrazione fatta completamente dalla enorme parte del prodotto annuo che viene sperperata da non operai. E qui sta il punto culminante dell'apologetica economicistica! Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall'uso capitalistico delle macchine non esistono, perché non provengono dalle macchine stesse, ma dal loro uso capitalistico! Poiché dunque le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoperate capitalisticamente ne aumentano l'intensità, poiché in sé sono una vittoria dell'uomo sulla forza della natura e adoperate capitalisticamente soggiogano l'uomo mediante la forza della natura, poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., l'economista borghese dichiara semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizioni sono una pura e semplice parvenza della ordinaria realtà, ma che in sé, e quindi anche nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmia di doversi ulteriormente stillare il cervello, e per giunta addossa al suo avversario la sciocchezza di combattere non l'uso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse.

«L'economista borghese non nega affatto che dall'uso capitalistico delle macchine provengano anche inconvenienti temporanei: ma dov'è la medaglia senza rovescio? Per lui è impossibile adoperare le macchine in modo differente da quello capitalistico. Dunque per lui sfruttamento dell'operaio mediante la macchina è identico a sfruttamento della macchina mediante l'operaio. Dunque chi rivela come stanno in realtà le cose quanto all'uso capitalistico delle macchine, non vuole addirittura che le macchine siano adoprate in genere, è un avversario del progresso sociale!».

E Marx prosegue ricordando Bill Sikes, celebre scannatore che si difese dinanzi ai giudici dando la colpa al coltello, e dicendo che per simili «inconvenienti temporanei» non era il caso abolire l'uso di un così prezioso utensile. Marx prevedeva già l'accusa di nemici del progresso. Ma l'accusa è cieca, è mal posta; progresso per che cosa? La questione non è questa: è che lo sviluppo delle forze produttive avanza e sovrabbonda per il passaggio a un modo di produzione più umano in cui le macchine non siano appendici della forza cieca del capitale ma obbediscano alle necessità di una società senza classi, padrona del proprio destino. Noi non aboliremo il coltello, Bill Sikes; cancelleremo dalla faccia della terra le condizioni che ti hanno spinto ad usarlo in modo infame!

Oggi le macchine dominano la vita dell'uomo, lo opprimono nella fabbrica e lo condannano ad una vita senza senso fuori di essa: «Il primo risultato delle macchine è di ingrandire il plusvalore e insieme la massa di prodotti nella quale esso si presenta e dunque di ingrandire, assieme alla sostanza di cui si nutrono  la classe dei capitalisti e le sue appendici, questi stessi strati della società. La crescente loro ricchezza e la diminuzione relativamente costante del numero degli operai richiesti per la produzione dei mezzi di sussistenza di prima necessità, generano un nuovo bisogno di lusso e insieme nuovi mezzi per soddisfarlo. Una parte abbastanza grande del prodotto sociale si trasforma in plusprodotto, e una parte abbastanza grande del plusprodotto viene riprodotta e consumata in forme raffinate e variate. In altre parole cresce la produzione di lusso».

Potenza di Marx che vide già l'affermarsi di una mezza classe infame e senza avvenire, abile solo con le sue ventose a sfruttare il proletariato e a sprecare in modo demente e individualistico preziose forze sociali, senza avere alcuna vera funzione storica che non sia quella di mistificare il proletariato e di conservare una società degenerata!

Torniamo infine, per concludere, agli studiosi americani da cui prendemmo le mosse; alla loro visione di un mondo privo di contrasti, di una vita quieta cullata dal ronfare delle macchine; alle loro visioni classicheggianti, e usiamo il metodo di dare loro una visione reale della «civiltà capitalistica» che forse poco conoscono e vivono come la conobbe e visse con passione rivoluzionaria Carlo Marx: «Da ciò (dall'avvento dell'uso capitalistico del macchinario) il paradosso economico che il mezzo più potente per l'accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare  tutto il tempo della vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale. «Se» sognava Aristotele, il più grande pensatore dell'antichità. «se ogni strumento potesse compiere su comando o anche per previsione l'opera ad esso spettante, allo stesso modo che gli artifici di Dedalo si movevano da sé o i tripodi di Efesto di proprio impulso intraprendevano il loro sacro lavoro, se in questo stesso modo le spole dei tessitori tessessero da sé, il maestro d'arte non avrebbe bisogno dei suoi aiuti e il padrone non avrebbe bisogno dei suoi schiavi». E Antipatro, poeta greco  dell'epoca di Cicerone, salutò nell'invenzione del mulino ad acqua per la macinazione del grano, che è la forma elementare di ogni macchinario produttivo, la liberatrice delle schiave e la iniziatrice dell'età aurea.

«Risparmiate la mano che macina, o mugnaio, e dormite - dolcemente! -Invano il gallo vi annunci il mattino! - Demetra ha ordinato alle ninfe il lavoro delle fanciulle - e ora esse saltellano leggere sopra le ruote, - che gli assi percossi girino con i loro raggi, - e in circolo ruotino le mole della pietra che gira. - Viviamo la vita dei padri. Rallegriamoci, liberi dalla fatica, - dei doni che la dea ci porge.

«I pagani, già i pagani!. Essi non capivano nulla dell'economia politica né del cristianesimo, come ha scoperto il bravo Bastiat e ancor prima di lui aveva scoperto l'ancor più intelligente Mac Culloch. Fra l'altro non capivano che la macchina è il mezzo più sicuro per prolungare la giornata lavorativa, Giustificavano, per esempio, dell'uno come mezzo per il pieno sviluppo umano dell'altro. Ma per predicare la schiavitù delle masse, per fare di alcuni parvenus rozzi e semicolti degli «eminenti filandieri», dei «grandi fabbricanti di salsicce» e degli «influenti commercianti in lucido da scarpe», mancava loro il bernoccolo specifico del cristianesimo».

Ma i sogni ingenui degli antichi classici greci che vagheggiavano la liberazione dell'uomo si dissolsero col tramontare dell'antichità classica, il sorgere e il decadere del feudalesimo, l'affermarsi prepotente del capitalismo. Oggi, richiamarsi all'antichità ellenica e sognarla possibile nel mondo delle tratte, delle fatture, delle vendite a rate, della pronta cassa, ecc., è una mistificazione interessata o un piagnisteo senza senso. Può essere al massimo la via del piccolo borghese, pronto a frignare sull'ieri e sui domani; ma freddo calcolatore del suo prezzo d'oggi. Sono esercitazioni senza   senso di una pletora di lacchè del capitale sostenuti e pagati dal sudore proletario e dall'imperversare della controrivoluzione.

Ma le ingenue profezie greche si avvereranno nel comunismo pieno, coronando il grandioso ciclo storico che dalla negazione della comunità primitiva porta alla sua realizzazione completa su una base incommensurabilmente più sviluppata. Si avvereranno nella fase superiore del comunismo, instauratrice di una società senza classi e senza sfruttamento, che trionferà con una rivoluzione mondiale sulle sterili fantasie deformi dell'oggi.

 

Il programma comunista, n.12, 27 giugno - 11 luglio 1966