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archivio > Archivio sulla sinistra>Qui si cucina la pace (Battaglia comunista, n. 23, 10 -24 agosto 1946)

aggiornato al: 30/01/2010

Battaglia comunista, n. 23, 10-24 agosto 1946

 

Un piccolo assaggio della pace che i vincitori offrono ai vinti al termine della seconda guerra mondiale, ma non solo ai vinti ma anche ai loro alleati di peso minore. La sola cosa che conta è la forza ed il potere (che garantiscono il profitto).

L' articolo è del 1946 e la sua lettura è senz'altro utile e indicativa per il mondo che si annunciava (stesso mondo con altri padroni).

L'articolo è già stato riprodotto nel 1976, pur con qualche omissione, nel volume a stampa Sul filo del tempo Prospettive rivoluzionarie della crisi (Roma, dicembre 1976) alle pagine 45-47.

 

 

Qui si cucina la pace

 

Sul tavolo anatomico di Parigi non c'è solo il cadavere dei vinti; c'è quello della pace e c'è quello della democrazia. Le 17 potenze minori sono state convocate per assistere a tre funerali.

Funerale della democrazia, giacché le potenze minori hanno un bel gonfiarsi, pretendere di avere voce in capitolo, ergersi a paladini della carta atlantica e delle quattro libertà di rooseveltiana memoria: la storia ha già deciso del loro destino. Se ha dato loro appuntamento a Parigi, è stato solo perché prendessero atto di una realtà più forte di qualunque programma. Il loro compito non è di costruire la pace: pedine dei Tre Grandi, sono chiamati a far da cornice ai loro agitati colloqui. Non legiferano: «raccomandano» ai Grandi soluzioni delle quali essi faranno quel diavolo di conto che credono. E, valendosi del veto o dell'arma a effetto sicuro della maggioranza di due terzi, il terzetto dei dominatori, o uno solo di essi, potrà impedire che perfino la semplice raccomandazione giunga in porto. Non tira aria buona al Lussemburgo, per i parenti poveri: e la democrazia universale è, nella fase monopolistica ed accentratrice del capitalismo, il più straccione dei parenti.

Funerale della pace, giacché è in atto uno schieramento di forze che fa pensare alle grandi manovre di due nazioni sul punto di entrare in guerra fra loro. Fare il calcolo dei voti su cui l'Inghilterra, l'America, la Russia potranno contare nelle prossime sessioni della Conferenza della Pace, è come fare il calcolo dei popoli che i Tre potranno mobilitare, sotto le più sgargianti bandiere ideologiche, per un altro bagno di sangue. Non per nulla le «questioni di procedura» hanno avuto il potere di infiammare gli animi pur così gelidi dei diplomatici: la procedura è tutto, quando si tratta di dar la sensazione del voto a un rapporto di forza e raccogliere intorno alla difesa di interessi imperialistici un numero adeguato di umilissimi servi. I diciassette rappresentanti delle nazioni minori sono stati convocati al Lussemburgo perché ognuno avesse il piacere (già più volte goduto dai ministri degli esteri dei 4) di guardare bene in faccia il suo avversario.

Tragico destino dei popoli che hanno fatto la guerra per conto di tre strapotenti padroni, e che si sono illusi di valere quanto loro nella pace!

 

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Funerali dei vinti, corollario naturale degli altri due. Un anno è passato dalla liberazione, e in questo anno i vincitori hanno creato nei paesi occupati uno stato di fatto che nulla, né la demagogia dei discorsi di stile societario di qualche delegato né quella ancor più miseranda dei governi interessati, potrà modificare. Ci si meraviglia che l'Italia sia ridotta a semicolonia anglosassone e i Balcani a semicolonia russa, come se questa condizione non fosse sancita da più di un anno di occupazione e come se non si trattasse ormai di contabilizzare, semplicemente, una rapina già avvenuta. Clausole finanziarie, clausole territoriali - tutti svolazzi tecnici dietro i quali c'è una realtà sola, il pieno, completo asservimento delle economie sconfitte dalla guerra all'economia di chi ha vinto. O che credevate che la Russia rinunciasse ai suoi 100 milioni di dollari di riparazioni, che Inghilterra e America fossero tanto generose da accollarsi l'onere di ritirare i 5 miliardi di dollari emessi in am-lire, e che Jugoslavia e Grecia, Albania ed Etiopia (cioè, in altro modo, le stesse potenze di cui sopra), volessero tirarsi da parte di fronte a un così lauto banchetto? E vano era richiamarsi ai sacrifici compiuti, al sangue versato, alla fedeltà dimostrata: tutte cose che non contano, sulla bilancia dei rapporti imperialistici, e non conta neppure - suprema ironia, per chi ha tanto mercanteggiato con quest'articolo -  la famosa «lotta antitedesca», se è vero che il trattato di pace prevede l'obbligo per l'Italia di rinunciare anche ai debiti verso la Germania e i cittadini tedeschi in sospeso all'8 maggio 1945, e a far valere il lavoro prestato dai nostri prigionieri e non pagato alla stregua dei prigionieri. Proprio così: l'Italia partigiana, l'Italia della repubblica e della democrazia progressiva, si vedrà liquidare tutte le attività che possedeva all'estero per pagare le riparazioni, annullare i crediti prebellici di origine commerciale e privata che poteva ancora vantare, ed estorcere anno per anno il frutto del lavoro dei suoi operai, dei suoi contadini, dei suoi ceti minori. Ed hanno un bel scalpitare i ministri della coalizione governativa e i capoccia di tutti i partiti rappresentati nella Costituente: i loro lamenti, le loro solenni affermazioni di intransigenza, le loro sparate irredentistiche, valgono quanto le lacrime di coccodrillo dei 17 delegati delle potenze minori a Parigi, quanto le proteste dei piccoli industriali e commercianti che l'evoluzione del capitalismo condanna a lasciarsi inghiottire dalle mastodontiche fauci di trust e cartelli.

E sono altrettanto insinceri. Giacché, al postutto, questa semicolonizzazione, questa spietata dipendenza dal capitale straniero, è, per la classi dominanti dei paesi vinti e dei paesi minori usciti sfiancati dalla guerra, l'unico modo di salvarsi dalla catastrofe. Non sono loro che pagheranno le riparazioni, i danni di guerra, le angherie di chi ha vinto: chi paga sarà Pantalone. Ed esse pomperanno ossigeno ai nuovi dominatori, vivranno entrando nell'orbita economica di questi ultimi, e avranno soltanto da perdere quella povera cosa che è l'orgoglio nazionale, qualcosa come la verginità per una donnina allegra. Non per nulla i partiti di governo o aspiranti al governo piangono, prima di tutto, su ciò che fa tirare un sospiro di sollievo ai proletari: la limitazione delle forze armate, la mutilazione della flotta. E' il blasone che conta per loro, il pane l'hanno assicurato.

 

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Sono i trattati minori quelli che vanno in discussione: le questioni giapponese e tedesca sono rimandate sine die. Lo sono per due ragioni inverse: perché in Giappone gli Stati Uniti hanno potuto quasi da soli, cucinare come volevano la loro pace, trasformare il paese in una dependance diplomatica di Washington e finanziaria di Wall Street, e accaparrarsi senza concorrenti un gigantesco mercato (dal sett. 1945 alla fine di maggio 1946, gli S.U. hanno importato in Giappone per 26 milioni di dollari su un totale di 17,8 milioni) perché in Germania il cozzo degli imperialismi è diretto e immediato, e una soluzione non può avvenire che sul terreno dei rapporti di forza. Ed è lì che si va costruendo la nuova polveriera mondiale.

A Parigi si cucina la pace, la pace delle quattro libertà, la pace della libertà dalla paura e della libertà dal bisogno (quella di parola e di religione è un lusso che il capitalismo può oggi tranquillamente permettersi). Ebbene, mai lo spettro della paura è tanto pesato sul mondo e, quanto alla libertà del bisogno, nella sola Berlino si contano 240.000 disoccupati totali, 400 mila disoccupati parziali, e altri 160 mila attendono di morir di fame se i rifornimenti di carbone e di materie prime non raggiungeranno, come non raggiungeranno, il livello previsto.

E' questa la pace del capitalismo

 

Battaglia comunista, n. 23, 10 - 24 agosto 1946