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archivio > Archivio sulla sinistra>La struttura organica del partito... (Il Programma comunista, n. 22, 30 dicembre 1965)

aggiornato al: 04/05/2012

Il Programma comunista, n. 22, 30 dicembre 1965
Riproponiamo diviso in due parti così come apparve nell'ultimo numero del 1965 e nel primo del 1966 questo lavoro sulla "struttura organica del partito", che, in quegli anni occupò, in varia misura,  il partito.
 
La struttura organica del partito è l'altra faccia della sua unità di dottrina e di programma
 
Nel giro di un anno è apparso su queste colonne un corpo di tesi in cui trova sistemazione definitiva la posizione della Sinistra Comunista e del nostro Partito sulle questioni di organizzazione. Elenchiamo la successione cronologica secondo cui questo materiale è stato pubblicato: n. 22 del 30 dic. 1964, Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione; n. 1 del 12 gennaio 1965, Primi risultati dei contributi giunti da tutto il Partito per l'elaborazione delle tesi definitive sulla sua organizzazione; n. 2 del 24 gennaio 1965, Considerazioni sulla organica attività del Partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole; n. 14 del 28 luglio 1965, Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della Sinistra comunista (tradotte e pubblicate anche su Le Proletaire, n. 24 del sett. 1965); n. 15, 16, 17 e 18 del 1965, Materiale documentario esposto ed illustrato a commento delle tesi generali della riunione di Napoli.
In tutto questo corpo di tesi si dimostra ad abundantiam che le posizioni del nostro Partito sulle questioni di organizzazione sono quelle sempre sostenute dalla Sinistra Comunista e che nessuna «svolta» o «nuovo corso» in materia è stato inaugurato. A questa abbondanza di dimostrazioni noi vogliamo aggiungere nuova abbondanza, non certo per aprire gli occhi ai ciechi, ma per rinsaldare ancor più la decisione nostra e di tutto il Partito nel proseguire lungo la via che da oltre cinquanta anni la Sinistra Comunista ha imboccato, la sola giusta, la sola che porterà alla ricostruzione di una nuova Internazionale Comunista e alla vittoria proletaria mondiale.
Sono alcune citazioni quelle che intendiamo ricordare, tratte da fondamentali testi del nostro Partito da lungo tempo noti a tutti i compagni. Sul n. 14, 23 luglio - 2 agosto 1953, di Programma Comunista, apparve un importante articolo intitolato «Pressione "razziale" del contadiname, pressione classista dei popoli colorati», che servì da introduzione allo studio classico del partito «I fattori di razza e nazione nella teoria marxista».
Il nostro movimento usciva allora da una fase in cui si era dovuto liberare di alcune scorie controrivoluzionarie, una delle cui caratteristiche consisteva appunto nel considerare superate le tesi nazionali di Marx e di Lenin. Ma altra loro caratteristica era un'analoga deviazione sulla questione organizzativa, consistente nel rivendicare l'utilizzazione del meccanismo democratico e respingere la tesi classica della Sinistra comunista sul centralismo organico.
Era dunque logico che, nel demolire la deviazione opportunistica sulla questione nazionale, il Partito accennasse anche alle tesi classiche della Sinistra sulle questioni di organizzazione, sebbene queste non fossero allora poste in primo piano, dato lo scarso sviluppo del Partito in quel periodo. Ed ecco infatti come, nell'articolo citato venivano sinteticamente ricordate le tesi della Sinistra Comunista nel campo tattico e organizzativo, in un paragrafo suggestivamente intitolato «Né libertà di teoria né di tattica»:
«Bisogna intendersi su questo fondamentale concetto della sinistra. L'unità sostanziale ed organica del partito diametralmente opposta a quella formale e gerarchica degli stalinisti deve intendersi richiesta per la dottrina, per il programma, e per la cosiddetta tattica. Se intendiamo per tattica i mezzi di azione, essi non possono che essere stabiliti dalla stessa ricerca che, in base ai dati della storia passata, ci ha condotti a stabilire le nostre rivendicazioni programmatiche finali e integrali. I mezzi non possono variare ed essere distribuiti a piacere, in tempi successivi o peggio da distinti gruppi, senza che sia diversa la valutazione degli scopi programmatici cui si tende e del corso che vi conduce. E' ovvio che i mezzi non si scelgono per le loro qualità intrinseche, se belli o brutti, dolci o amari, morbidi od aspri. Ma, con grande approssimazione, anche la previsione sul succedersi della loro scelta deve essere comune attrezzatura del partito e non dipende dalle «situazioni che si presentano». Qui la vecchia lotta della Sinistra. Qui anche la formula organizzativa che intanto la cosiddetta base può essere utilmente tenuta ad eseguire i movimenti indicati dal centro, in quanto il centro è legato ad una «rosa» (per dirla breve) di possibili mosse già previste in corrispondenza di non meno previste eventualità. Solo con questo legame dialettico si supera il punto scioccamente perseguito con la applicazione di democrazia interna consultativa, che abbiamo ripetute volte dimostrate prive di senso. Sono infatti da tutti rivendicate, ma tutti sono pronti a dare spettacolo, on piccolo e in grande, di strani e incredibili colpi di forza e di scena nell'organizzazione».
 
Lenin nel 1904 e nel 1922
Il testo è di una cristallina chiarezza. Tuttavia, riteniamo utili alcune osservazioni. Il superamento della «democrazia interna consultativa» nel partito rivoluzionario viene collegato alla «previsione» e pianificazione dei mezzi tattici di cui il partito si serve nelle successive situazioni storiche. E' ovvio che nei periodi storici in cui il partito proletario non era ancora giunto storicamente ad una razionale pianificazione della tattica, dunque nella II e nella stessa III Internazionale, ogni brusco (e anche lieve) mutamento di situazione generasse nel partito rivoluzionario contrasti, scontri, formazioni di correnti e di frazioni, e a volte lacerazioni organizzative. Il meccanismo democratico era dunque, in quel periodo storico, lo strumento di cui le correnti e frazioni componenti il partito si servivano nella loro lotta interna per sopraffarsi a vicenda, ed era nello stesso tempo il tessuto connettivo che in periodo normale teneva unito il partito. Se la democrazia nel partito fosse la fonte della «verità» o dell' «errore», era una questione che potevano porre solo dei metafisici, e che in realtà ponevano da una parte i riformisti, dall'altra gli anarchici e i sindacalisti sorelliani. I marxisti rivoluzionari, dal canto loro, non hanno mai posto, e non potevano porre, una simile puerile questione. I marxisti erano tenuti a sapere che la democrazia è un meccanismo di coercizione, un inganno organizzativo, e dovevano essere pronti a servirsene per i loro scopi come a metterla sotto i piedi, quando era necessario, sempre per i loro scopi. Dovevano sapere che i partiti nei quali conducevano la loro lotta non erano «partiti puramente comunisti», che si trovavano correnti e frazioni non marxiste e non comuniste, e che si trattava di sopraffarle e sottometterle servendosi del meccanismo democratico. La democrazia nel partito doveva servire ai marxisti per ingannare i propri nemici evitando con cura d'essere ingannati.
L'utilizzazione del meccanismo democratico è dunque indissolubilmente legata a un'epoca storica in cui non vi sono «partiti comunisti puri». Non solo i partiti della II e della III Internazionale non erano giunti ad una sistemazione razionale della tattica basata sulla teoria, sui principi e sui fini comunisti, e quindi entravano in crisi frazionistiche ad ogni svolta della situazione politica, ma non erano per definizione «partiti marxisti». Ciò è evidente per quanto riguarda la II Internazionale, coacervo federalistico di tendenze di ogni genere. Ma nella stessa III Internazionale vi erano correnti che si proclamavano apertamente non marxiste senza che ciò comportasse la loro espulsione.
In Francia, ad esempio, sindacalisti rivoluzionari come Rosmer e Monatte e riformisti evoluzionisti come Cachin e Frossard costituivano di fatto la sezione francese dell'I.C., tenuti insieme dalla ammirazione per la rivoluzione d'Ottobre. In Italia, A. Graziadei, esponente della corrente di destra del Partito, poteva scrivere pubblicare e difendere libri in cui si demoliva il Capitale di Marx, senza che ciò portasse alla sua espulsione. In Germania, Lukacs e Korsch potevano iniziare una revisione filosofica del marxismo in senso idealistico e rimanere tuttavia nella Internazionale. Zinoviev  tuonava, è vero, da Mosca; ma i tuoni di Zinoviev non significavano certo la espulsione di Korsch e di Lukacs.
Se non si parte da queste ovvie considerazioni, è inutile leggere Lenin, e in particolare il testo che egli dedicò nel 1904 alle questioni organizzative sorte nel P.O.S.D.R dopo la prima rottura fra bolscevichi e  menscevichi, e cioè «Un passo avanti, due passi indietro».
A questa importantissima opera di Lenin, che da quarant'anni è divenuta il cavallo di battaglia delle falsificazioni staliniste per quanto riguarda le questioni di organizzazione del partito rivoluzionario, dedicheremo una analisi approfondita non solo ricollocandola nella situazione storica in cui essa nacque, ma collegandola alle polemiche svoltesi nel campo proletario sulle questioni di organizzazione, a partire dalla Lega dei Comunisti e dalla I Internazionale, e giungendo fine alla Internazionale Comunista e alla sua degenerazione e dissoluzione. Un simile studio dovrebbe affiancarsi a quello analogo apparso nel 1960 sul nostro giornale e dedicato a L'estremismo, malattia d'infanzia del comunismo di Lenin. Come infatti l' «Estremismo» è il testo sul quale lo stalinismo e il post stalinismo fondano la loro falsificazione nel campo della tattica, così «Un passo avanti, due passi indietro» è il testo utilizzato dagli opportunisti di ogni sfumatura per creare confusione nel campo delle questioni organizzative, e anche per esso possiamo ripetere quanto dicemmo a proposito dell' «Estremismo»: «Il testo più sfruttato da quarant'anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna».
Ma a noi ora interessa ricordare che nel 1904, quanto Lenin scrisse Un passo avanti, due passi indietro, il P.O.S.D.R. era una sezione della Seconda Internazionale, e che le formule organizzative in esso propugnate sono le stesse allora fatte proprie dalla socialdemocrazia tedesca come Lenin stesso ripeté ad ogni pagina, con in più un'accentuazione del centralismo e dei poteri del comitato centrale nei confronti della base, del resto spiegata e giustificata dalla situazione illegale in cui il P.O.S.D.R. era costretto a lottare.
Se dunque Lenin nel 1904 parla di utilizzazione del meccanismo democratico, parla nello stesso tempo della normalità della divisione del partito in correnti e in frazioni. Questo nel 1904. Ma, se ci occupiamo della III Internazionale, anche qui vediamo che Lenin accetta come normale  la sua divisione in correnti. In tutti gli scritti successivi al 1919, Lenin parla dell'esistenza di una destra, di un centro, di una sinistra comunista. Vi è di più, anzi, di peggio: nell'articolo intitolato Serrati e la caccia alla volpe, scritto fra il III e il IV Congresso, Lenin, dopo aver riconosciuto ancora una volta la divisione dell'Internazionale in destra e sinistra, riconosce di aver sbagliato al III Congresso nell'attaccare troppo a fonda la  «sinistra», e si ripromette di condurre una lotta ben più dura contro la «destra». Lenin si poneva dunque come capo dell'Internazionale la cui funzione doveva essere, fra l'altro, di equilibrare, finché possibile, l'urto delle correnti nel suo seno. E in questa situazione politica e organizzativa veramente tragica, lo stesso Lenin, alla fine del 1922, al IV Congresso, intrattiene i delegati del proletariato mondiale intorno alla questione: «Siamo o non siamo perduti?». E riconosce di non poterle fornire risposta. Ma, nello stesso periodo Lenin prevede, nel suo «testamento», la possibilità di una rottura nel Partito Comunista russo, nel «monolitico» partito russo, e negli articoli sulla questione nazionale, mentre attacca Stalin, come «sciovinista grande-russo», registra lo sviluppo di un «imperialismo russo» e di un «socialnazionalismo russo», constata la sopravvivenza del «vecchio apparato statale zarista consacrato dall'olio santo sovietico», e prevede che i piccoli nuclei di operai sovietici e sovietizzati restino annegati nell'oceano della spazzatura sciovinista grande-russa «come una mosca nel latte». E, mentre prevede e scrive tutto ciò, il capo dell'Internazionale si trova  nella non invidiabile situazione di non sapere a chi confidare le sue previsioni, a chi trasmettere i suoi scritti. Egli è prigioniero di un nascente opportunismo. E mentre la controrivoluzione sta in agguato e già costruisce l'osceno mausoleo in cui rinchiudere l'imbalsamato, il capo della rivoluzione d'ottobre, l'altro grande capo, Trotskij, richiude nei suoi cassetti gli ultimi scritti di Lenin, accettando di non rivelarli al Partito già restio ad affrontare con vigore le questioni di politica economica rese urgenti dalla «crisi delle forbici» del 1923. Abbiamo osservato altra volta, commentando la lettera di Lenin a Serrati dopo il Congresso di Bologna, che la questione della rivoluzione si risolve scrivendosi qualche decina di indirizzi giusti. Lenin nel 1922 non aveva più indirizzi.
 
L'Internazionale e la Sinistra
In conclusione la III Internazionale era un'organizzazione non «puramente comunista», nel cui seno quindi esistevano correnti dichiaratamente non marxiste e perfino antimarxiste, un'organizzazione divisa in correnti e frazioni che per tutti questi motivi non era potuta pervenire ad una sistemazione razionale delle questioni tattiche. Essa era un prodotto della storia, certamente, un ponte di passaggio verso un'Internazionale «puramente comunista» e verso un Partito Comunista Internazionale unico, come Zinoviev e i bolscevichi sostenevano. Perciò, la formula di organizzazione che la caratterizzava, il «centralismo democratico», appunto, era anch'essa una formula di transizione, aperta a diversi e opposti sviluppi.
La Sinistra Comunista italiana condusse coraggiosamente la sua lotta in seno alla Internazionale, per salvarla da un nuovo opportunismo e per facilitarne e renderne possibile il passaggio a partito Comunista Internazionale. Essa sostenne che condizione di questo passaggio era la sistemazione della tattica alla scala mondiale, e che solo su questa base si sarebbero potute superare le crisi frazionistiche, la divisione in correnti e l'utilizzazione del meccanismo democratico. Questa lotta coraggiosa e difficile si risolse allora in una sconfitta, perché la Sinistra si trovò sola a condurla, ma fu tuttavia la sola lotta feconda, che salvava i principi comunisti e l' avvenire  del movimento e poneva le solide basi di una lontana, ma inevitabile ripresa della battaglia rivoluzionaria.
Non è dunque possibile separare le posizioni della Sinistra nel campo tattico dalle posizioni della Sinistra nel campo organizzativo. Non si può dire: sistemazione razionale della tattica sì, centralismo organico e soppressione del meccanismo democratico nel Partito no. Chi pretende di attuare una simile distinzione, non è che un demagogo che mistifica gli altri mistificando se stesso. E i demagoghi, come Lenin disse, sono i peggiori nemici del proletariato.
Chi pretende (o si ripromette), di utilizzare il meccanismo democratico nell'organizzazione del partito, non può cianciare di Partito Monolitico. I partiti proletari in cui vigeva l'utilizzazione della democrazia non sono mai stati partiti monolitici, ma sono stati partiti divisi in correnti e in frazioni, partiti non «puramente comunisti» e non per definizione «marxisti». Un solo esempio ci ha fornito la storia di partiti organizzati sulla base del meccanismo democratici, e malgrado ciò monolitici: quello dei partiti stalinisti. Ma lo stalinismo poté essere monolitico e democratico al tempo stesso, perché si fondava sulla forza dello Stato, come del resto il fascismo. Ed oggi il monolitismo staliniano si spezza nell'urto fra gli Stati che compongono, o componevano, il falso e bugiardo «campo socialista».
 
Ed oggi?
La formula organizzativa del «centralismo democratico», caratteristica della III Internazionale, era dunque aperta storicamente a diversi ed opposti sviluppi: essa tendeva da una parte verso il centralismo burocratico, dispotico e statale, e tuttavia sempre democratico dello stalinismo, cioè della controrivoluzione; e dall'altra parte verso il centralismo organico e non democratico proprio del Partito Comunista Internazionale unico, puramente comunista e puramente marxista, basato su una sola dottrina, un solo programma e una sistemazione razionale della tattica. Il «centralismo democratico» era aperto storicamente da una parte verso il monolitismo della rivoluzione, dall'altra parte verso il monolitismo della controrivoluzione. Questo concetto è chiaramente formulato nel testo del 1953 sopra citato, in cui «l'unità sostanziale ed organica del partito» viene «diametralmente opposta a quella formale e gerarchica degli stalinisti».
Prima di abbandonare questo tema, con riserva di tornare ad analizzarlo compiutamente in uno studio su «Un passo avanti, due passi indietro», accenniamo brevemente alla distinzione fra «circolo» e «partito», da molti sollevata del tutto a sproposito. Che cosa erano i «circoli»? Essi sorsero in Russia fra il 1890 e il 1900, e confluirono nella costituzione del P.O.S.D.R. Ed ecco, cianciano alcuni, che oggi ci troviamo nella situazione della Russia fra il 1890 e il 1900: esistono molti «gruppi» e «circoli» rivoluzionari, quello che manca è il «partito». E per arrivare a questo - a parte l'eventuale e sospirata ricomparsa del «grande capo» - occorre una ricetta, quella della «democrazia», cioè di un «congresso sovrano» che unifichi i «gruppi» in «partito».
Il parallelo storico fra la situazione russa del 1890-1900 e la situazione d'oggi è talmente puerile che merita un solo commento. Nel 1890 esisteva soltanto una Seconda Internazionale. Esiste oggi qualcosa di simile? Non si sono mai poste le scimmie che vogliono fare come Lenin, questa piccola, semplice domanda?
E d'altra parte, se fosse vero (ma non è) che viviamo nell'epoca dei «circoli», dovrebbe essere altrettanto vero che nei «circoli» non si vota. Ora tutti quelli che cianciano di passaggio dai «circoli» al «partito» votano, eccome. Ma allora è chiaro che dieci persone le quali chiacchierano per votare e votano per chiacchierare, non sono un «circolo» e nemmeno un «salotto», perché nei «salotti» si fanno giochi di società, si chiacchiera e si maligna ma non si vota. Dieci persone che votano non possono pretendere di costituire un «circolo» che confluirà nel futuro partito rivoluzionaria, perché sono soltanto una sezione del presente e reale manicomio bo4ghese, una succursale dell'osceno bordello capitalistico.
 
(continua nel prossimo numero)  
 
il programma comunista, n. 22, 30 dicembre 1965