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archivio > Archivio sulla sinistra>Legalismo e illegalismo capitalistici (Battaglia comunista, n. 31, 3 - 10 agosto 1949)

aggiornato al: 02/03/2013

Battaglia comunista, n. 31, 3 - 10 agosto 1949
Ci fa particolarmente piacere esserci posti come obiettivo di ripubblicare vecchi articoli della nostra stampa ormai caduti nel dimenticatoio. Vediamo in questo modo quanto i temi affrontati sessanta o settanta anni siano ancora vivi e quanto poco la realtà di questo mondo sia cambiata da allora.
La situazione è ancora quella della accettazione degli strumenti fondamentali dl dominio di questa società e casomai quella che si mette in discussione e si combatte (senza esagerare, ovviamente!) è la disonestà di cui il capitalismo continua a far uso.
Buona lettura!
 
 
Legalismo ed illegalismo capitalistici
 
L'opposizione ha sparato le sue ultime cartucce parlamentari in un dibattito sull'illegalismo delle forze dell'ordine e in particolare sulla violenza esercitata nei confronti dei braccianti. Per questi signori, è uno scandalo giudiziario, che la borghesia faccia quello che ha sempre fatto, ed è illegale, cioè contrario al codice borghese che la classe avversa al proletariato eserciti la forza come suo titolo di diritto.
Il dibattito è dei più assurdi dal punto di vista delle più elementari posizioni di classe. Il vecchio riformismo, di fronte alla violenza esercitata dagli agrari e dagli industriali nelle fasi più acute dei contrasti sociali, si appellava alla legge e allo Stato come se legge e Stato non fossero, l'una, la codificazione statutaria, l'altro l'organizzazione esecutiva di una generale violenza di classe, come se cioè gli articoli del codice da una parte, gli istituti della società capitalistica dall'altra non fossero uno per uno e tutti insieme, altrettante barriere erette da questa società contro l'attacco della classe operaia, e funzionassero invece come enti metafisici imparzialmente posti a difesa e a tutela di tutti i cittadini contro l'arbitrio di singoli. Il nuovo riformismo, avendo contribuito direttamente alla elaborazione di un «codice democratico» e alla ricostruzione dello Stato «popolare», supera di gran lunga il vecchio nell'ossequio a questi due strumenti della violenza capitalistica contro gli operai.  
Come di fronte al fascismo nascente, così oggi il riformismo si agita di fronte allo spettro di atti «illegali» e periferici di violenza padronale e perde di vista quello che è il motore centrale, organico, permanente della violenza. Esso si risveglia dal letargo delle «armonia» democratiche il giorno in cui un agrario aggredisce uno scioperante ed arruola crumiri e lo Stato interviene a proteggere non il bracciante ma il padrone, così come si risvegliava dalla beata fede del non-prevalere del fascismo solo quando lo Stato prendeva apertamente le difese delle squadracce nere contro i proletari in lotta. E' questo «illegalismo» che lo spaventa e lo stupisce, mentre è per esso perfettamente normale quell'uso non aperto, non episodico, non centrale della violenza o, che è lo stesso della dittatura capitalistica, che è l'esercizio quotidiano di una giustizia basata interamente sulla forza o il maneggio normale degli ingranaggi amministrativi dello Stato in vista dell'oppressione della classe avversa.
In altre parole, lo Stato non è per esso il nemico ma l'amico, la giustizia non è la codificazione di tutta la prepotenza e di tutto l'arbitrio su cui si fonda la società in cui viviamo, ma, al contrario, l'arbitro e il mediatore fra uomo e uomo: il proletariato non è soggetto alla violenza ora per ora e minuto per minuto, ma in casi e momenti di eccezione, e questa violenza lo colpisce non attraverso i grandi e fondamentali istituti della società borghese ma attraverso una deviazione arbitraria di singoli individui dal «diritto» e dalla «legge». Per cui ad ogni episodio di violenza alla Scelba, ecco una petizione allo Stato perché ricordi le funzioni per le quali è sorto, ed applichi la giustizia contro l'ingiustizia!
Gli effetti politici di questa posizione di fronte allo Stato e alla giustizia borghesi sugli schieramenti di battaglia del proletariato sono perniciosi. Sia che ― come si poteva ancora credere un tempo ― derivi da un «errore» di principio, sia che derivi ― come siamo oggi più che autorizzati a dire ― da una precisa funzione al servizio dell'ordine costituito, ― questa posizione sposta l'azione proletaria dalla battaglia frontale e generale contro la società borghese all'accettazione degli strumenti fondamentali del dominio di questa sulla classe lavoratrice, dalla lotta contro lo Stato in quanto organizzazione di difesa e di potenziamento del privilegio capitalista alla sua adorazione, dalla centralizzazione degli sforzi e delle energie operaie contro la barriera centrale degli organi fondamentali e permanenti della classe avversa al loro sbriciolamento nell'episodio locale o nella polemica contingente e periferica. Non è più lotta contro la società borghese nell'insieme armonico dei suoi mezzi di repressione, ma riconoscimento della legalità di questi e condanna dei presunti fenomeni degenerativi di una generale funzione di legge. Non è più smascheramento di quella violenza permanente e centrale che è il vero avversario della classe operaia, ma accecamento della coscienza proletaria e difesa della dittatura capitalistica, allo stesso modo come la polemica contro gli «strati retrivi e reazionari» del capitalismo, contro i capitalisti «esosi» o «disonesti», ecc. tende a far dimenticare ai proletari che il capitalismo è tanto più forcaiolo, oppressore, aguzzino, quanto più è «onesto» «progressista» e riformatore, e che la condanna socialista del regime del profitto non ha nulla a che vedere con le encicliche papali contro la disonestà degli usurai e lo spirito scarsamente cristiano degli imprenditori.
Quando l'opposizione rimprovera a Scelba di usare la polizia e la magistratura difesa dei padroni, chiede alla borghesia di rinnegare se stessa e di volgere lo stato, suo baluardo, contro i suoi interessi contingenti e perenni. Quando strilla contro le violenze individuali rimaste impunite dimentica che Stato e giustizia sono qui per difendere la violenza organizzata costante e generale. La classe operaia nell'altro dopoguerra ha dovuto lottare, ben più che contro le squadracce fasciste, contro l'apparato generale di difesa dello stato democratico: le due offese erano, comunque, parallele, si sostenevano a vicenda; né poteva essere diverso. Oggi, Scelba non fa che esercitare con perfetta coscienza la sua missione di esecutore delle «esigenze superiori» dello Stato: ed è un esecutore spietato quando «applica la legge» non meno di quando compie «atti di arbitrio».
D'altra parte, la cambiale in bianco gliel'anno data i partiti di sinistra. Sono loro che hanno ricostruitolo Stato e che hanno sancito tutti i principii ai quali, legalissimamente, il governo oggi si appella. Il «diritto al lavoro» al quale si richiamano gli Scelba di tutto il mondo nel proteggere i padroni ed i loro crumiri è stato inserito da tutti i partiti della democrazia nelle tavole della Costituzione italiana: e il «diritto al lavoro» significa, come ha sempre significato in regime capitalista, «diritto dell'operaio a farsi sfruttare». Quando il governo proclama d'essere deciso a difendere il patrimonio nazionale, non fa che tradurre nel suo linguaggio la teoria togliattiana e nenniana secondo cui i proletari devono difendere un bene comune di tutti gli italiani, l'agricoltura nazionale, l'industria nazionale, la indipendenza nazionale. Quando Scelba fa il patetico sul grano o sul riso nazionali minacciati di rovina se lo sciopero si fosse prolungato, Di Vittorio poteva ben rivendicare la paternità della frase, giacché furono i confederali a farsi scudo del «riso nazionale» sia per chiedere agli agrari che mollassero sia per liquidare lo sciopero. Quanto alle jeeps della polizia e alle sentenze dei tribunali, quanto ai manganelli e alle dichiarazioni di amnistia, val la pena di ricordare che tutto ciò è opera comune di governo e opposizione?
Quello che i rivoluzionari dicono e non devono stancarsi di dire ai proletari non è già che questo governo non è democratico ma che lo è nel più perfetto dei modi, essendo la democrazia appunto, una delle tante armi dirette contro il proletariato: che lo Stato non esorbita dalle sue funzioni ma anzi le applica in pieno: che questo «fascismo» è la «democrazia». Tutte cose che la opposizione non può dire e non dirà mai, per il fatto palmare che è. anch'essa, una delle forme fondamentali della democrazia.
 
Battaglia comunista, n. 31, 3 -10 agosto 1949