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archivio > Archivio sulla sinistra>Costituito in casa chiusa o in casa aperta... (Il P. comunista, n. 14, 23 luglio - 24 agosto 1953)

aggiornato al: 30/06/2013

Il Programma comunista, n. 14, 23 luglio - 24 agosto 1953

 

 

 
 
 
Un bell'articolo del 1953 dedicato, dopo la morte di Stalin, alla caduta di Beria: è l'inizio della destalinizzazione e, a caldo, Programma comunista ne parla. Bisognerà aspettare quasi cinquanta anni per leggere la biografia di Beria fatta da Amy Knight (Amy Knight, Beria Ascesa e caduta del capo della polizia di Stalin, Mondadori 1999).
 
\Costituito in casa chiusa o un casa aperta lo Stato capitalista è lo stesso lupanare
 
 
Una differenza in meglio, il male minore dello Stato russo, se messo in relazione con gli Stati d'Occidente, poteva essere datodalla mancanza del plebiscitarismo, che è poi il parlamentarismo senza parlamento dei regimi cosiddetti totalitari. Fortunatamente, il crollo di Beria, e la valanga di grottesche accuse che ne ha sepolto il nome, doveva giungere molto opportunamente a dissipare l'equivoco. Sì, lo Stato russo è una dittatura, ma a contenuto sfacciatamente borghese. C'è poco da fare. Nemmeno sul piano formale il governo di Mosca può pretendere di continuare la dittatura del proletariato. La classe dominante russa non può non ascoltare la voce del sangue, non può non buttarsi sul mondezzaio parlamentare, sia pure cucinato negli stampi totalitari, che porta il marchio di fabbrica «made in West».
Proprio come avviene nella fogna dei parlamenti al di qua della cortina di ferro, il marcio dei costumi politici delle sfere superiori del personale di governo che si manifesta negli intrighi, nelle pastette, nelle lotte di fazioni, nelle feroci vendette di congiurati, si tenta di coprire (che ne è successo della sprezzante squalificazione fatta da Lenin del democraticismo borghese?!), con la nauseabonda risorsa del «ricorso al popolo», del plebiscito.
Cominciò il Comitato Centrale, riunito a liquidare l'onnipotente Ministro degli Interni e capo di tutte le polizie di Santa Russia. L'accusatore Malenkov, mentre i moscoviti dormivano ignari, sparò a mitraglia le imputazioni: «Il nemico del popolo Beria, che è stato ora smascherato, aveva ottenuto la fiducia con varie macchinazioni carrieristiche, e si era insinuato nella direzione. Mentre in un primo momento le sue attività criminali, antipartitiche e antistatali, erano profondamente nascoste e mascherate, negli ultimi tempi Beria, divenuto insolente e arrogante, ha cominciato a mostrare il suo vero volto ̶ ilvolto di un nemico giurato del Partito e del popolo sovietico». Significa che la messa sotto accusa del «traditore» non seguì immediatamente la «scoperta» delle sue azioni sovversive intese «a minare lo Stato sovietico nell'interesse del capitale straniero». E che seguì allora? Chiaro! Il compromesso, il tentativo di intendersela, il tiramolla di inequivocabile marca parlamentare, la «politique d'abord» cara agli imbroglioni ciarlatani alla Nenni. Seguì la convivenza delle opposte fazioni nel triumvirato Malenkov-Beria-Molotov. Ma nell'ombra ognuna preparava la distruzione della rivale. Proprio come a Montecitorio. Conquistandosi l'appoggio della casta militare e dell'esercito, tenendo ben ferme nelle mani le redini della macchina di partito, il Governo doveva sconfiggere la opposizione di Beria.
Nel corso della stessa notte, il 9 luglio, in altra sede riunito, il Presidium del Soviet Supremo provvedeva a spogliare il decaduto maresciallo delle cariche governative. Persa la tessera del Partito, persi i Ministeri.
A parte naturalmente le stupide accuse di tendere alla «restaurazione del capitalismo», quasi che il passaggio da un tipo di società ad uno opposto potesse operarsi con un colpo di Stato; a parte pure le incredibili incriminazioni di venalità, quasi che l'onnipotente capo del Ministero degli Interni e delle cento polizie russe, avesse bisogno di denaro come un maniaco giocatore; sul colpo di forza azzardato, e pienamente riuscito, dal Comitato Centrale e dal Soviet Supremo, non ci sarebbe stato da dire altro che rispettava le regole della dittatura. Invece, si è voluto la buffonata suprema del «ricorso al popolo».
A poche ore di distanza dalla chiusura della sessione del C.C. e del Presidium del Soviet Supremo, la Segreteria del Partito inscenava una disgustosa commedia, convocando i comitati di Mosca del P.C.U.S. e gli attivisti disponibili. Erano in 2000, con altrettanti voti Alla voce, non uno solo in meno: quella che il giornale romano «Il Tempo» doveva definire nientemeno che una «convenzione rivoluzionaria», passava ad approvare i provvedimenti-catenaccio applicati al «traditore», il traditore di sempre, lui, Laurenti Beria, l'agente segreto dell'imperialismo anglo-americano. Non risulta che uno solo di questi «convenzionali» a tanto il mese abbia chiesto perché non si fosse fatta la grandiosa adunata quando Beria aveva «cominciato a mostrare il suo vero volto». Fenomeno non inspiegabile: la democrazia parlamentare o plebiscitaria funziona quando i cittadini sovrani sono emeriti imbecilli; crolla non appena la critica rivoluzionaria spreme dai cervelli le bubbole.
Se Malenkov può ordinare la convocazione degli attivisti in ogni angolo della Russia e farsi approvare per acclamazione e all'unaninìmità l'atto di accusa contro Beria, questi tuttavia si salva, se non davanti alla Corte Suprema, al vaglio della critica. Se il Partito comunista, l'Esercito, l'attivistume non riescono a scorgere le stridenti contreaddizioni e le palesi menzogne del comunicato del C.C., significa, se mancassero le decisive prove tratte dal campo dell'economia, che il capitalismo non è da restaurare, ma da distruggere in Russia. Solo il capitalismo è riuscito finora a produrre tali forme di abbrutimento mentale.
La crociata per il rafforzamento del Gabinetto Malenkov rimaneggiato si è fondata sullo sbandieramento del «principio della direzione collettiva». Ora l'ossequio formale e di occasione a tale caposaldo teorico si pone in stridente e inconciliabile contraddizione non diciamo con la ventennale divinizzazione di Stalin, ma con la stessa posizione del Comitato Centrale di fronte alla persona di Beria.
«Fatti incontestabili — diceva il comunicato del C.C. — dimostrano che Beria ha perduto l'aspetto di un comunista, si è treasformato in un degenere borghese ed è divenuto in effetti un agente dell'imperialismo internazionale. Questo avventuriero e mercenario delle forze imperialiste straniere accarezzava il piano di impadronirsi della direzione del Partito e del paese, allo scopo di distruggere il nostro partito comunista e di sostituire alla politica elaborata dal partito nel corso di molti anni una politica di capitolazione che, in ultima analisi, avrebbe condotto alla restaurazione del capitalismo».
Accuse meno inconsistenti, dal punto di vista della teoria marxista sulla funzione della personalità, cui pure il C.C. mostrava di inchinarsi, non si potrebbero formulare. Può accadere benissimo che individui una volta militanti nel comunismo, passino nel campo borghese. E che? Non è forse questo il caso proprio dei gerarchi russi che fucilarono i bolscevichi accusandoli di collusione con il regime nazionalsocialista, e poi nel 1939 vennero a patti con Hitler, diventando suoi alleati? Non è accaduto in Italia che gente una volta militante nel comunismo rivoluzionario sia passata poi a nozze con democristiani, liberali, socialisti nel seno dei Governi cosiddetti di Liberazione nazionale? Che Beria abbia rotto con la linea tradizionale dello stalinismo, chiedendo una politica intesa a liberare il governo dalla pesante eredità ideologica staliniana e la smobilitazione di certe bardature statali spacciate per socialiste, ciò non sorprende. Muove al riso invece l'accusa a lui mossa di volersi «impadronire della direzione del partito e del paese».
I trapassi del potere statale hanno per protagonisti le classi; l'avvicendarsi del personale di governo si svolge in base al gioco mutevole dei partiti o delle correnti in seno al partito dominante. Le accuse del C.C. avrebbero un senso, se il nome Beria stesse a contraddistinguere, come è avvenuto nella realtà, una formazione politica. La stampa moscovita ha annunziato destituzioni e siluramenti un po' dovunque, specie in Georgia, patria di Beria e in Ucraina, ma continua a far convergere tutti i suoi strali sulla persona di Beria. Ciò mentre si inserisce nel comunicato del C.C. un passo di Marx contro il culto della personalità, il seguente:
«Preso da disgusto per ogni culto della personalità, io, durante la esistenza dell'Internazionale, non ho mai permesso la pubblicazione dei numerosi messaggi attestanti le mie benemerenze con cui venivo molestato da vari paesi, e non ho loro neppure risposto, tranne che per un appello occasionale. La prima volta che Engels ed io entrammo in una società segreta di comunisti, fu soltanto a condizione che venisse cancellato dallo statuto tutto ciò che potesse condurre a un superstizioso culto della personalità».
Se in Russia fosse ancora in vigore il supplizio delle verghe, e lo si applicasse ai falsificatori del marxismo, non solo i reprobi maledetti, ma tutto il C.C. e il Governo con alla testa Georgi Malenkov, bisognerebbe farli passarre tra le due fila di soldati armati di bastoni che sotto lo zarismo i deportati in Siberia chiamavano la «strada verde». Ora che si tratta di salvare quanto rimane del triumvirato dopo la silurata a Beria si fanno scovare dai segretari privati le citazioni di Marx che fanno al caso. Ma davanti alla bara di Stalin ora sono appena quattro mesi, lo stesso Malenkov non decantò il defunto come l' «autore di tutte le cose» che si muovono in Russia? Allora non si sognava neppure che esistesse il principio della «direzione collettiva».
«Continuando l'opera di Lenin — esclamò Malenkov, precedendo Beria e Molotov nelle funebri giaculatorie — e applicando instancabilmente la dottrina leninista, il compagno Stalin ha portato il paese alla vittoria di importanza storica mondiale del Socialismo assicurando, per la prima volta in molti millenni di esistenza della storia umana, la liberazione dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo».
Non officiava Georgi Malenkov sulla Piazza Rossa trasformata in un tempio all'Eroe? Pretendere che Stalin, cioè un uomo che per giunta non si innalzò mai sulla media capacità intellettuale dei circoli politici russi, abbia portato la Russia al socialismo costituisce non solo una menzogna di fatto, ma un pacchiano omaggio al «culto supersizioso della personalità», così duramente frustato da Marx. Colpa tanto più grave in quanto il marxismo entrò in Russia alla fine del secolo scorso proprio attraverso una brillante lotta contro il populismo, movimento idealista in dottrina e volontarista in pratica che negava la lotta di classe, pretendendo che i salti della storia fossero il meraviglioso effetto di azioni straordinarie di uomini eccezionali. E la furiosa crociata denigratoria contro Beria, la crocifissione del crocefissore, quell'insana trasformazione in Orco antropofago di uno che non è peggiore dei tanti boja al servizio del governo di Mosca, non è un culto della personalità alla rovescia?
Quando le trattative di armistizio in Corea erano ancora da venire, i servizi della propaganda moscovita mossero agli americani l'accusa di lanciare sulle retrovie dei nord-coreani bombe di terracotta che, nel percuotere il suolo si frantumavano liberando uno schifoso pattume di scarafaggi, mosche, ragni, cimici, blatte, preventivamente infettati in laboratorio delle più terribili malattie epidemiche.
Gli idoli del partito stalinista, i Buddha viventi del politicantismo cremlinesco, rassomigliano come gocce d'acqua alle bombe batteriologiche dei loro compari americani: precipitando dal piedestallo e fracassandosi al suolo, schizzano intorno una melma ributtante. Alla faccia loro e della vile borghesia che servono.
 
Il Programma comunista, n. 14,  23 luglio – 24 agosto 1953